COLAPESCE, “Egomostro” (42records, 2015)

10897850_926706527374284_3604881408692130701_nQuello che rimane tuttora memorabile del primo disco di Colapesce era quel modo tutto suo di rendere dolce l’attualità, le abitudini che si fanno routine, i saliscendi emozionali e affettivi, i ricordi e le nostalgie, ovvero lo stesso genere di cose che molti altri invece traducono più superficialmente e in modo immaturo in atmosfere negative. C’è anche un senso di serenità e pace nei giorni pigri da spendere in due, c’è una poesia speciale nel caldo estivo che quasi soffoca, c’è dolcezza nel collezionare vecchie foto, e tutto questo il cantautore siciliano lo aveva raccontato bene dentro “Un Meraviglioso Declino” del 2012.

“Egomostro” arriva più di due anni dopo quel disco, e già dal titolo ingombrante ci viene il dubbio che qualcosa sia cambiato nella lettura del mondo che succede intorno a Colapesce. Un’impressione che si conferma chiaramente già alla prima canzone, “Entra pure”, una intro in cui il dindillio di un carillon non riesce a distogliere l’attenzione dalle liriche, e parole come “hai un fucile già carico a paure che vuoi spararmi contro” si prendono tutto lo spazio attentivo dentro al cervello e dentro alle orecchie.

E già da qui in poi, il grigiore accennato si espande per tutta la durata del disco, anche quando le composizioni musicali provano a trarre in inganno: qua e là si sentono tappetini elettronici soffusi, caldi, su cui però si appoggiano liriche dolciamare o amare o amarissime. La maggior parte dei pezzi dentro all’album infatti vivono sospesi su questo strano equilibrio tra preziosismi compositivi e testi dalle tinte crepuscolari: funziona così soprattutto in “Dopo il diluvio”, “Egomostro”, “Le vacanze intelligenti” e “Sold out”. A sublimare questo ossimoro è “Maledetti italiani”, in cui l’egomostro interiore del titolo si diffonde come un’epidemia e diventa malattia sociale: il ritornello “maledetto italiani, maledetti, maledetto me” chiude strofe amare e disincantate sul mondo che ci circonda e che funziona ormai irrimediabilmente al contrario: gli isterismi per gli sconti da Zara, la mafia che è diventata pop, la musica che miete vittime.

Qua e là nel disco c’è comunque spazio anche per canzoni à la Colapesce, di stampo acustico, e altro spazio ancora per pezzi che provano ad aprire squarci di luce calda nel cielo nuvoloso. Per esempio il giochino di falsetti e musichine allegre dentro “Reale”, che stavolta non ingannano, e infatti c’è il tempo per canticchiare strofette di amore postmoderno come “Forse sei l’amore al microscopio”. È miele che non infastidisce, presente anche in “Sottocoperta”, che da metà in poi riscalda e riesce ad far passare per buona anche qualche banalità che altrove sarebbe stata di troppo (“Ti abbraccio e sento il mare”). Particolarmente riusciti, un po’ sopra alla media, sono poi “Passami il pane” e soprattutto “L’altra guancia”: il primo per come stupisce con quel suo tappetino ambient/postrock impreziosito da calde lucine elettroniche, il secondo per come quasi commuove nel raccontare l’ossessione per il tempo, e di ciò che il tempo lo fa accelerare o dilatare (“Ci sono dei giorni in cui le ore sono briciole”, “La vita è solo una manciata di domeniche”, “Nascondo le ore sotto il tavolo”, “Il tempo non sa a chi far del bene”).

Concepito come rilettura tutta personale delle difficoltà, delle insensatezze e delle malinconie dentro e fuori il mondo di Colapesce, alla fine “Egomostro” sembra però quasi rimanere vittima di sé stesso: di tanto in tanto, e ad aumentare con gli ascolti ripetuti, il disco diventa anche troppo pesante, di un peso difficile da sostenere. Volendo esagerare si può dire che è un disco imbruttito. E anche i momenti più light, che ci sono, non riescono comunque a far volare l’album.
Se infatti nel primo disco Colapesce riusciva a trovare appigli a cui aggrapparsi per evitare di sprofondare dentro sè stessi, in questo secondo album molto spesso la via per la salvezza è molto più difficile da individuare.

60/100

Enrico Stradi