MUTUAL BENEFIT, “Love’s Crushing Diamond” (Soft Eyes, 2013)

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Capita spesso, nel bene e nel male, di leggere interminabili ed annose discussioni sullo stato della musica, c’è sempre qualcuno che se ne viene fuori con le frase “la musica è morta, i dischi non si vendono più e nessuno va più ai concerti”. I Mutual Benefit, one man band del venticinquenne americano Jordan Lee, smentiscono questo luogo comune trito e ritrito.

Lee è il vagabondo musicale per eccellenza, viaggia in continuazione, da un posto all’altro, conduce – si potrebbe dire – una vita da nomade delle sette note. Durante gli anni della high school suona in diverse band pop punk e dai 17 anni in poi, influenzato da Elliott Smith, comincia a comporre musica pop – strutturata in strofa, ritornello, bridge – per poi abbandonare la forma canzone classica ed appassionarsi di fonografia e suoni non tradizionali.

Nascono così i Mutual Benefit, come progetto di registrazione di rumori – chiamali se vuoi suoni – che circondano il giovane Lee, ad Austin, Boston e Brooklyn e dovunque egli vada. Sulla sua strada gli capita poi di incontrare vari musicisti, vecchi amici – provenienti dall’Ohio – o amici di amici come il violinista Jake (sono sue le parti di violino in “Love’s Crushing Diamond), viene spontaneo quindi creare musica, osservando il mondo circostante e c’è da dire che Lee non si è fermato un attimo, con la mente e il corpo, ha prodotto, dal 2009 ad oggi, numerosi EP e singoli (“Figure in Black”, “Drifting EP”, “Spider Heaven”, “I saw the sea” e “Mutual Spirits”). Ma “Love’s Crushing Diamond” è il primo album vero e proprio, concepito come tale anche dallo stesso autore : “I would consider like it a full-lenght record”. Le idee confuse delle prime produzioni trovano pieno sviluppo, diventano “un pensiero completo”.

Lee compie un lavoro, pregevole e lodevole, di integrazione-fusione tra mondi di concepire la musica contrapposti: classicismo e sperimentazione. Accanto a strutture e trame sonore classiche – fedeli a un modello ben consolidato – vengono inseriti elementi stranianti, avulsi dal contesto. È esemplare in tal senso “Strong River”, brano di rottura, posto in dirittura d’inizio per disorientare e stupire: l’autore destruttura la forma canzone, per raccogliere e fotografare fedelmente una varietà di suoni, accennati e frammentari.

Parallelamente a questo processo di scomposizione e fatturazione si affianca una linea di scrittura lineare nella migliore tradizione pop barocca, in cui le parti vocali – ottime in questo caso – si inseriscono leggiadre come piume nel flusso sinuoso del corpo strumentale, ingentilito dagli archi e dalla semplicità bucolica del banjo (“Advanced Falconry”). L’approccio alla stesura e realizzazione dei brani è totalmente sregolata, l’importante per Lee non è tanto scrivere un pezzo orecchiabile – se viene, bene – quanto comporre piccole suite visionarie e fantasiose: si parte da piccoli rumori infantili e si arriva a melodie complesse ed articolate (“Let’s Play/ Statue Man”). “Love’s crushing diamond” è un puzzle in mille pezzi, tutti da scoprire. Incantevole.

75/100

(Monica Mazzoli)

27 novembre 2013