STUBBORN HEART, “Stubborn Heart” (One Little Indian, 2012)

Lo avevamo detto, lo avevamo scritto: per quanto attiene al livello di fruibilità commerciale di un certo impasto di silenzi minimal, voci più o meno soulful e timbri elettronici freddi, i debutti di XX e James Blake hanno cambiato tutto. Non solo per il successo e la diffusione che hanno garantito a proposte non immediate, quanto per il mondo che sono stati in grado di mettere in movimento, o di modificare sensibilmente. Da un lato si è infatti registrata una, ormai conclamata, sfiorando la bulimia, revisione della dubstep in chiave soul, di cui SBTRKT e Jamie Woon rappresentano solo gli esempi più recenti e riusciti, ma dall’altro, forse più interessante, abbiamo una riscoperta di alcune pagine di storia della musica che parevano segnate da un oblio permanente, come in una edizione tagliata male. È il caso degli stilemi del northern soul, l’r’n’b uptempo dei giovani “reazionari” del nord di Londra dei tardi anni’60-primi ’70 nostalgici della Swinging London e del mod, che vengono riproposti proprio dai londinesi Stubborn Heart.

All’anagrafe Luca Santucci (di chiare origini italiane) e Ben Fitzgerald, il progetto “cuore ostinato” trae il nome da un pezzo, appunto northern soul, degli Sheppards. L’album, profondamente originale nonostante il pericolo di adesione ad una delle più fortunate tendenze dell’elettronica contemporanea, appare ad un tempo solido e variegato, unitario e plurale: schematizzando si potrebbe dire che l’omogeneità è attribuibile alla voce di Santucci, dai toni caldi ma sempre profondamente albionici, senza mai azzardare l’imitazione del contemporaneo e ben salda in un passato di ascolti, un po’ inattuali. Davvero notevoli le prestazioni in “Better Than This” e “Starting Block”, nonché nella b-side del singolo “Need Someone” dal titolo “Unearthly Powers”, certamente uno dei pezzi più riusciti del duo, ma non incluso nell’album in quanto “eccessivamente allegro”, come dichiarato in una recente intervista.

Al cantato monocorde ma sempre qualitativo si affianca, si diceva, la conoscenza a tratti enciclopedica delle differenti forme che l’elettronica britannica ha assunto nel corso dell’ultimo decennio, qui quasi riassunte dalla produzione di Fitzgerald: miscele caldo/freddo tipicamente trip-hop e tappeti crooner da club bristoliano si alternano a ritmiche minimali dall’incedere dubstep, con qualche reminiscenza addirittura ascrivibile al vecchia UK Garage. “Head On” e “Interpol” le solari dimostrazioni.
Infine, in chiusura, proprio il singolo “Need Someone” rischia di far gridare al capolavoro, esclamazione in verità non giustifica dal complesso dell’album: pezzo realmente eccezionale, dolente, toccante, segnato da pulsazioni, pause, ripartenze, da un timbro urbano mai eccessivamente, e prevedibilmente, bass-music. Qui la varietà cede senza remore il posto ad una armonia quasi primigenia, dove ogni elemento, influenza, ricordo, ritrova il suo aristotelico luogo naturale.

“Stubborn Heart” non è però, come detto, un capolavoro: ai momenti alti infatti alterna alcuni riempitivi, ai grandi pezzi oppone passaggi in cui l’intuizione melodica sembra non essere sempre all’altezza richiesta per decretarne la caratura di “evento”. D’altra parte, certamente, un album più immediatamente pop dell’illustre antecedente James Blake, e maggiormente accessibile ad un pubblico non esattamente avvezzo alle divagazioni r’n’b oggi in grande espansione.

Una condizione paradossale quindi, quella del duo londinese: l’inattualità dei riferimenti proposti si fonde infatti con l’affollamento di proposte simili nel panorama musicale degli ultimi anni. Un apparente paradosso che giustifica e rende merito alla, indubbia, caratura del disco e che il costante riferimento alle peculiarità del northern soul, differente ma simile a certi aspetti della nostra attualità, appare in grado di sciogliere: se è l’isolamento infatti la cifra classica dell’inattualità, i due Stubborn Heart scontano la solitudine dell’originalità.

72/100

(Francesco Marchesi)

7 dicembre 2012

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