GIANFRANCO DE FRANCO, “Cu a capu vasciata” (MK Records, 2012)

“Cu a capu vasciata”, a testa bassa come un Geppetto sconsolato nella pancia della balena. Che poi in realtà era un grosso “pescecane”, il che rende meglio l’idea di antro/ambiente oppressivo e spietato, senza via d’uscita. Così inizia questo lavoro del fiatista calabrese, sperimentatore di suoni, collaboratore di Red Basica e Mandara Project, musicoterapeuta e autore di musiche di scena: da quel crepitio di fiamma amica e foriera di libertà, “candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde” – verde speranza? – che in un brano di “Les Premiers Plaisirs” offriva un po’ di luce – e forse calore – all’ormai rassegnato papà di Pinocchio.

E rassegnato non è certo De Franco, che con questo disco – frutto della convergenza fra le musiche di due spettacoli teatrali, in dialetto calabrese, di Saverio La Ruina e del progetto APP di terapia clinica – ci regala un concept sull’alienazione, insieme sociale e mentale. Il clarinetto, “voce umana”, come bisturi dell’io, strumento maieutico per estrarre confessioni altrimenti relegate al muto monologo interiore da una spietata macchina sociale. Certo la musica crea l’ambiente, l’atmosfera, il cosiddetto “commento”, per le storie scabre ed essenziali, taglienti, appese fra dramma e grottesco, di La Ruina; ma allo stesso tempo le arricchisce facendosi personaggio dialogante: un dialogo con Pascalina, Vittoria e le altre voci femminili protagoniste di “Dissonorata” e “La borto”, vittime delle leggi ancestrali – e tutte maschili – di una Calabria non solo di ieri.

C’è il Mediterraneo nella musica di De Franco, filtrato da una eleganza classica venata di sperimentalismo che reinterpreta i dettami della tradizione. Loop appena accennati, rumori naturali, frammenti jazzistici e da ballo di sala – ma di quello controllato alla Šhostakovič – lontanti ricordi progressivi e una grande cura timbrica nei fiati: l’amalgama traghetta il disco lontano dalle secche di una musica applicata per specialisti. Una scommessa vinta. Stravinta quando si arriva alle ultime due tracce, quelle dove la musica non fa più da portavoce ma da interprete della dimensione mentale dei pazienti psicotici.

Una difficile operazione di mimesi che sfocia in una sorta di kubrickiano tunnel di luce: luce in cui dietro l’apparente freddezza del microKorg io avverto il caldo del sole del Sud che profuma di mare e macchia mediterranea. Luce d’alba o di tramonto, come in certe atmosfere liquide del primo Vangelis – quello ancora misurato sbocciato a inizio anni settanta con “666” e “Aegean Sea” – che crea paesaggi onirici velati di quella sottile malinconia insita nei sogni che è segnale della loro irrealtà. Una malinconia che non assomiglia al tragico e beffardo unicorno origami di “Blade Runner” né ai freddi totem di “Inception” ma è partecipazione e “simpatia”, nell’originale significato greco del termine, perduto dall’italiano ed ereditato dall’inglese: comprensione, solidarietà. Le parole chiave di questo disco.

79/100

(Federico Olmi)

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