M83, “Hurry Up, We’re Dreaming” (Naive, 2011)

La megalomania di Anthony Gonzalez, storico e unico titolare rimasto nel progetto M83, sfiora i livelli di guardia. Al sesto album, dopo cinque validissimi prodotti in un decennio di stridori shoegaze e rumoroso post-romanticismo wave, il compositore francese decide di osare.

Lo aiuta un hype spropositato, tra anticipazioni eclatanti, recenti tour da stadio di supporto a mostri mainstream quali i Killers o i Depeche Mode, nell’impresa di giustificare l’ambiziosa scelta di realizzare un doppio album. Dagli Anni Zero in poi, tutto scorre velocemente tra singoli, streaming ed LP che spesso risultano come brodaglie allungate di verosimili EP, fatti di un nucleo di quattro o al massimo cinque canzoni degne di nota e riempitivi vari. Ma “Hurry Up, We’re Dreaming” prova a sfatare i trend consolidati proponendo un’opera magna fatta di ventidue brani, con sei tra intermezzi e interludi che comunque non snaturano l’idea di base di un mega-concept epico e di difficile metabolizzazione.

L’irrazionale macchina dell’hype è del tutto indipendente. Non una novità di questi tempi. A differenza del precedente “Saturdays=Youth”, patinato e di più facile digestione, non c’è di mezzo una major, come la Virgin. C’è semmai di mezzo la Mute nella distribuzione negli USA, dove dell’album si parla da mesi, con pareri per lo più entusiastici, già a pochi giorni dall’uscita. Basti pensare che l’album è stato presentato in streaming direttamente sul sito della famosa catena d’abbigliamento cool lowcost Urban Outfitters.

Il sesto capitolo della saga M83 sembrerebbe insomma aver sconfitto ogni tabù di sorta, complice anche l’ottima “Midnight City, canzone di lancio, in giro già dall’estate che accoglie nei peculiari sfondi da nostalgici shoegazer delle venature da novelli Simple Minds che non possono che risultare vincenti e convincenti. E il secondo brano di lancio l’intro – dal titolo “Intro” – con un’ospite di lusso quale Nika Roza Danilova aka Zola Jesus, giovane e promettente ninfetta dark-wave della scena indipendente americana. Il suo crescendo è incontenibile tra riverberi circolari e riverberi interstellari che accolgono la gelida voce della carismatica Danilova.

Anche nei momenti più dimessi, le sonorità di M83, suonano meno intime che in passato, assumento un impatto dal retrogusto barocco e teatrale, con chitarre acustiche, cori, orchestrazioni e voci stranamente in primo piano rispetto alle abitudini dreamy. Se “Wait” rievoca in un certo senso la tradizione di riferimento ricongiungendo i Cocteau Twins di “Treasure” agli Arcade Fire. “Splendor” eccede in pathos da versione pseudo-natalizia degli Antlers. “Soon My Friend” trascende in panorami morriconiani legandosi alla perfezione con i fasti all’intro della seconda parte ai fasti sinfonici di “My Tears Are Becoming A Sea”.

Paradossalmente questo a cavallo tra i due cd è uno dei pochi momenti realmente coerenti nei passaggi tra un brano e l’altro. Ogni canzone sembra un atto in sé. In questa svolta teatrale in casa M83 spesso gli atti risultano slegati. Difficile insomma condividere i paragoni eccessivi di Gonzalez con un’altra recente opera enciclopedica della storia del rock, “Mellon Collie and the Infinite Sadness”. Ancora più difficile rintracciare il legame fratello/sorella tra brani della prima e della seconda parte del doppio, come rivelato in un altro dei tanti proclami di presentazione.

E paradossalmente, M83 risulta più efficace quando si rivivono i convulsi scenari degli albori. Saranno pur passati otto anni da “Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts”, ma ripetersi non è sempre un male. Così l’umile energia dissonante che riemerge dalla magniloquenza generale. in “This Bright Flash”, “New Map” “Year One, One Ufo” fa finalmente tirare un sospiro di sollievo.

Nulla di sbagliato in questo esperimento biblico di Gonzalez, ma ascoltando brani quali “Reunion”, “Claudia Lewis o “Ok PAL”, si fa un po’ fatica ad abituarsi a questa esplosione di colori, a una vitalità da ampi spazi che ben si presta a un rock da grandi arene.
La nostalgia è stupida, ma in questo M83 dagli arrangiamenti così curati e impeccabili, svanisce quel fascino agrodolce, impuro e imperfetto, di quei maestri decadenti del dream-pop e dello shoegaze cui si ispirava. Seppure, delle volte, ai limiti del plagio.

Si percepiscono le evoluzioni, e tra i brani già citati anche “Steve McQueen” mostra un’evidente maturità compositiva da grandi classici.
Ma esistono anche dei voli pindarici. Ed M83 travolto da un insolito successo, a dispetto del titolo, per un album in realtà ha smesso di sognare. E di far sognare.

67/100

(Piero Merola)

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