GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO, “Rojo” (La Tempesta Dischi, 2011)

Da certi musicisti ci aspettiamo sempre comportamenti romantici e rumorosi. Dobbiamo immaginarceli per forza come navi che sfidano tempeste, perennemente in lotta contro gli elementi. Ci farebbe impressione e ci deluderebbe scoprirli ormeggiati in un porto, pigramente oscillanti sulle placide acque del ricovero. Ma che senso e che credibilità può avere un’imbarcazione ottusamente fissa nel periglioso mare? Lo fa evidentemente apposta. Non ha alcuna direzione, nessuna meta, o è governata da un capitano tragicamente incompetente. Perdonatemi la lunga e antipatica metafora, ma Giorgio Canali con i suoi Rossofuoco mi dà proprio quest’impressione. Il chitarrista è uno che si butta da più di vent’anni (soprattutto nei suoi lavori “solisti”) in mare aperto, agitandosi, sbattendosi, facendo casino, ostentando integrità e furore, ma che alla fine non è ancora arrivato da nessuna parte. È che gli piace proprio la posa da irrequieto e pur di mantenerla agisce su se stesso e sulla sua musica un controllo educativo che davvero poco ha a che fare con la reale inquietudine e con un sincero sentimento di tensione.

In “Rojo”, nuovo album edito da La Tempesta Dischi, Canali è molto indignato e bellicoso e ritorna ad arrangiamenti più duri, invertendo la rotta inaugurata con “Tutti Contro Tutti” del 2007. “Regola numero uno: sfasciare tutto” canta in “Regola #1”, il brano di apertura che potrebbe benissimo aver scritto un Piero Pelù qualsiasi a corto di melodie, ma più verboso e meno saggio del solito. L’indignazione di Canali è, appunto, sommamente inelegante e ridondante. Fatta di agghiaccianti e mesti luoghi comuni e del più insopportabile dei qualunquismi da protesta. Peggio che in passato. Ma cosa lo scandalizza così tanto? Le banalità sopportabilissime di questo “effimero” vivere quotidiano e un po’ tutte le realtà inconfutabili e inamovibili sulle quali si fonda la nostra, e la sua, società. È sommamente agitato dalla deriva orwelliana della contemporaneità, dai vestiti che indossa il Papa, dalla precarietà, dalla corruzione politica, dalla crisi morale e dal capitalismo. La sua è quindi un’acutissima e originalissima critica, ferma più o meno a tematiche che spaziano temporalmente della riforma protestante al primo marxismo. Queste sono le cose che spingono Canali a urlare come un diciottenne in agitazione psicologica e a graffiare la chitarra con piglio nuovamente punk-rock.

E i casi sono due: o Canali è regredito ulteriormente, costretto da un’indisposizione esistenziale a uno stato mentale teneramente inconsapevole che davvero gli fa sembrare tutte queste cose meravigliose e indigeribili, o recita una parte, sperando così di conservare i suoi quattro affezionati della prima ora, fissati in quel prevedibile fanatismo medio-rivoluzionario da provincia, oppure di raccattarne nuovi tra le più fresche generazioni. Perché Canali è un po’ un vampiro e vuole rimanere giovane. Si tiene aggiornato. Lo confessa apertamente nello sfogo idealistico adolescenziale di “Ci Sarò” e nelle velleità da inno per manifestazioni popolari varie ed eventuali di “Carmagnola #3”. Succhia il sangue ai ragazzini e imbratta di plasma l’armonica a bocca. Lo ha fatto anni addietro avvicinandosi al mondo dei Marlene Kuntz, poi a quello dei Verdena e ora a Le Luci della Centrale Elettrica. Certo, non ha solo preso, ma anche dato. E probabilmente proprio in questo dare Canali ha espresso il meglio della propria sostanza (leggi come produttore). Quando invece decide di prendere, di mettersi in proprio, è chiaro come il sole che qualcosa non va. Sarà che il suo sarcasmo è un po’ troppo grossolano, che il suo essere diretto risulta oltremodo forzato e artefatto, che il suo rock diventa sempre più prevedibile e anonimo… Ed è triste.

Ci sono tantissimi motivi per rispettare il suo percorso storico (tutti gli album dei Csi, ovviamente, qualcuno dei Pgr e, forse, l’omonimo dei Rossofuoco) e “Rojo” non è uno di questi. Non possono esserlo la stucchevole e moscia ballata, a metà tra Ligabue e Vasco Brondi, di “Controvento” né la confusa “Treno di Mezzanotte”. Non è un problema di significati: Canali vuole conferire al suo nuovo lavoro un senso di riconoscibilità politica oggettiva che possa bilanciare il soggettivismo lirico delle sue canzoni-sfogo sentimentali, ed è legittimo. Ma non c’è vera riflessione né musica realmente potente alla base. Le canzoni di “Rojo” gettano sull’ascoltatore parole e immagini infuocate a manciate, con la stessa coscienza e la stessa produttività con la quale i manifestanti lanciano sampietrini contro le vetrine nelle manifestazioni. Siamo sempre tentati di trovare in questi gesti un fondamento rispettabile, un dolore condivisibile o un’ideale da scandagliare, ma il più delle volte non c’è altro che inautenticità e vacuità da scoprire. Come dire che l’ideale potrebbe pure al limite giustificare come effetto un sampietrino, ma il sampietrino in sé non potrà mai farsi causa di un ideale. Che recensione reazionaria da vecchio oligarca!

40/100

(Giuseppe Franza)

7 ottobre 2011

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