BEIRUT, “The Rip Tide” (Pompeii Records, 2011)

Bentornati allo show del menestrello errante di Santa Fe, Zachary Francis Condon, e della sua banda: i Beirut. “Ho lasciato i vagabondi, una pista di pietre per trovare la strada di casa”. Al suono di fanfara si annuncia la corrente di ritorno “The Rip Tide” e come dal nulla il paesaggio si tinge di tramonti e atmosfere rurali. Si accendono le lanterne di carta variopinta, si appendono alte le frasi di rito e le coccarde. Billy the kid tra la gente che bercia e s’accalca intorno alle tavole imbandite, i boccali di birra si scontrano a mezz’aria per brindare allo spirito country che ancora sopravvive, con le sue nostalgie e le sue innocenti evasioni, nonostante il vortice del tempo.

A cinque anni dal fortunato debutto di “Gulag Orkestar” i Beirut confermano serenamente la loro idea di sound in un panorama oramai in preda al caos riguardo a generi e modi di coniugarli. La voce baritonale di Condon si trascina melanconica, alla maniera Yorkiana o Hegartiana, narrando incontri, notti e luoghi che nell’immaginario artistico si colorano di note agro-dolci e per un istante elettroniche (“Santa Fe”). Impossibile non citare l’essenza di “The Basement Tapes” di Dylan, il bisogno di raccogliersi per rievocare in musica una nuova fase dell’esistenza, e il risultato oltre che a non dispiacere è senza dubbio sincero. Nove tracce essenziali, celebranti un cammino che è un po’ quello di tutti, un intimo sguardo che ci appartiene. Una sensibilità conservatrice e legata alle tradizioni, al folklore di angoli sparsi tra Balcani e New Mexico.  Ad aprire le danze “A Candle’s Fire”, un giusto approccio ai 33 minuti circa dell’album. Fiati, violini, fisarmonica e ukulele: Sono sempre loro. Non vi sono evoluzioni, e forse nessuno si aspetta davvero di vedere un altro Devendra Banhart che si libera dei suoi abiti sputatamente hippy per lanciarsi senza indugio in un discorso decisamente più glam. E d’altronde lo stesso Dylan fu tra i primi a rischiare il linciaggio col suo spiazzante cambio di direzione anni addietro. Oggi nulla più stupisce, la coerenza può stancare, ma la purezza, nelle intenzioni e nell’ispirazione, quella resta. E per i Beirut vale già qualcosa il termine “cult”…

“And this is the house where I could be unknown, be alone now And I found the rip tide”, le parole di Condon nella title track. “The Peacock” sembra riallacciarsi allo spazio ipnotico e sospeso di “Motion Picture Soundtrack” dei Radiohead. “Port of Call” chiude il disco con versi emblematici: “I could only smile, I’ve been alone sometime. And all in all, It’s been fun”.

Mezzora di Beirut che non può far male. Affatto. L’estate volge al termine, tanto vale celebrarla questa fine, con un sorriso, alzando boccali a mezz’aria, piuttosto che rammaricarsene.

68/100

(David Capone)

1 settembre 2011

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