Ypsigrock Festival, Castelbuono (PA), 4/7 agosto 2011

Solo chi conosce la condizione di frontiera senza incontro, di testa di ponte senza sostegno, di periferia senza l’orgoglio della diversità, può comprendere cosa significhi il miracolo di Castelbuono e del festival Ypsigrock in una situazione prossima alla desertificazione musicale e/o culturale della Sicilia e nello specifico del palermitano. Quindi è con fierezza che ne parlo qui su Kalporz.
Immaginate un paese abbarbicato su un colle dentro il parco delle Madonie, raggiungibile attraverso tornanti e un paesaggio spettacolare tra querceti, e in fondo la celeste foschia marina: l’antichissima Ypsigro oggi Castelbuono. E in mezzo alle stradine medievali del centro immaginate una piazza chiusa da una cinta muraria con una poderosa porta e il castello normanno a dominare su tutto. E qui dentro immaginate una volta all’anno, in genere la prima settimana di agosto, lo scatenarsi di allegre baldorie rock, affollate, poganti, urlanti, che stupiscono le pietre, non più ormai sonnacchiose, della piazza. È l’Ypsigrock Festival, un appuntamento per gli appassionati siciliani di musica indie e non solo.

Ogni edizione che si è susseguita dal 1997 ad oggi è stata capace di andare più in là, di conquistare nuovi territori verso l’internazionalizzazione delle line-up, verso l’ambizione di proposte sempre più osè. Quest’anno sembra che il nome corra a più non posso, che gli addetti ai lavori inizino a parlare con insistenza dell’importanza di trovarsi quassù, tra la storia, la bellezza della natura e la passione verace per la musica. Così la XV edizione dell’Ypsigrock, da giovedì 4 agosto a domenica 7 agosto, ha rappresentato il salto definitivo verso la meritata fama per cui “dovevate esserci”, alternando, con un mix ardito di sapienza organizzativa, giovani promesse nostrane (Captain Quentin, Dimartino, il trio italo-losangelino Honeybird & The Birdies) a mostri meritatamente osannati (Pere Ubu, giunti a sostituire gli Spiritualized, e Mogwai), estremi dubstep (Mount Kimbie) a revival magistrali di pop anni 80 (Twin Shadow), dream-pop lugubre (Esben and The Witch) a noise-pop accattivante da matricole universitarie (Yuck), synth-pop d’alta classe fotogenica (Junior Boys) al folk catartico che libera da ogni autocompiacimento (Josh T. Pearson).

Purtroppo non ho potuto partecipare all’intero festival. Non mi è andata male però, riuscendo a ritagliarmi le serate clou dell’edizione, potendo assistere il 5 agosto all’esibizione dei Captain Quentin che Josh T. Pearson sul palco subito dopo ha elogiato, dello stesso messianico Josh T. Pearson, dei Twin Shadow che hanno preriscaldato la platea con un pop godereccio irrefrenabile, e delle eminenze della serata, alias gli inimitabili Pere Ubu. L’esibizione del texano Pearson purtroppo è stata quella più carente dal punto di vista artistico, non riuscendo a entrare veramente in sintonia con il pubblico, pagando lo scotto di un sound elettrico privo di sfumature, troppo sopra le note tanto da consumarle e occultarle, troppo minimalista per una piazza da emozioni fisiche dirompenti come quella del Castello. L’esibizione da segreto confessionale non è stata compresa, producendo purtroppo una platea distratta che si ricordava dove fosse solo alla fine del brano quando almeno regalava un doveroso applauso. Ci terrei però a sottolineare la gentilezza, la pazienza e l’infinita disponibilità da vero gentleman di Josh che alla fine del concerto, magro come un chiodo e ascetico come un derviscio si è intrattenuto con quanti desideravano complimentarsi, fotografarlo, rapirlo, senza mai sottrarsi, senza mai negare la mano, un sorriso e un autografo. Encomiabile.

Le stars della serata erano loro, i Pere Ubu, che hanno eseguito per intero il capitale “The Modern Dance”, senza disdegnare classici come “30 Second Over Tokyo” e “Heart Of Darkness”. Dave Thomas, dimagrito e con abiti appuntati come su una gruccia, resta l’istrione che ha saputo portarci per mano attraverso l’apocalisse ridicola dei nostri tempi. Ora seduto su una sediola da scena ora in piedi accanto ad un serioso leggio, ha cantato con la sua voce da psicopatico la passata e la presente idiozia dell’uomo anche nel disfacimento. Troppo irriverente per prendersi sul serio, scimmiottando modi e gestualità mussoliniani, con le bratelle e la camiciola a quadri da pensionato, ha parlato tra un brano e l’altro ironizzando sulle ragioni creative di ognuno di essi, ridicolizzando a ben vedere i motivi anarco-post-industriali che sancirono il successo tanto importante di “The Modern Dance”, e con essi gli aficionados attempati che avevano già dato e gli “sbarbatelli” punkeggianti accorsi per il pogo liberatorio. Giusto che fosse così: divertente, ilare e cattivo!

Il 7 agosto, serata di chiusura, ero tra le primissime file, sotto il palco, in attesa… c’era nell’aria la tensione dei momenti mitici che stanno per entrare in scena, la quiete che vuole concentrarsi per essere all’altezza dell’esplosione nella tempesta.
Dimartino canta e suona e diverte con i suoi modi alla Rino Gaetano, ma l’attesa è palpabile, la distrazione dilaga. Si aspettano i protagonisti dell’edizione 2011, i Mogwai, gli scozzesi di Glasgow, e nient’altro. Fuori è sold out, un memorabile sold out di cui si parlerà almeno fino alla prossima edizione: mai visto prima, la capienza della piazza è ai limiti. Per loro migliaia di ragazzi sono arrivati da tutta la Sicilia, mandando in tilt per qualche minuto l’organizzazione che però ha saputo reagire con un’efficenza teutonica di rarità commovente. Gli organizzatori fremono, sorridono tra loro e corrono affaccendati, forsennatamente da un angolo all’altro dell’ingresso e della piazza: sanno di aver fatto il colpaccio!

Il post dubstep dei Mount Kimibie segna il cammino del festival ormai in dirittura d’arrivo, traghettandone le grandi emozioni verso la loro conclusione. I battenti stanno per chiudere e lo faranno con una vera deflagrazione. Prima però il duo londinese ci vezzeggia, ci inizia alla trance, ci fa ondeggiare e ci fa scattare sulle ginocchia come esercizi di riscaldamento. Esercizi leggeri ma stimolanti. E poi arrivano i Mogwai, per l’ultima ora del nostro festival. Ed è l’esplosione di entusiasmo e di suono, come se il mitico Thor avesse lanciato il martello Mjöllnir sulla piazza, o come se il vaso di Pandora fosse stato aperto su di noi.
Confermo che dal vivo, se ci fossero ancora dubbi, i Mogwai sono un’esperienza potentissima, che letteralmente mozza il fiato nel petto, che riesce a far vibrare insieme alla cassa toracica persino pantaloni e magliette. Nessuna sorpresa nella scaletta che contiene i classici che tutti si aspettavano venissero suonati (“Hunted By A Freak”, “Mogwai Fear Satan”, “New Paths To Helicon part 1” per citare i più noti) anche se la pluri richiesta “Glasgow Mega-Snake” non è stata concessa. C’è stato un momento distorto in cui la percezione è stata rivoltata e riprogrammata, qualcuno si è dovuto allontanare dalle prime file, qualcun altro ha dovuto tapparsi le orecchie doloranti per alcuni minuti, un evidente problema di missaggio che ha colto di sorpresa i Mogwai per primi, e ha fatto storcere il muso a quelli che desideravano dal vivo la perfezione di un lavoro da studio. Personalmente ho trovato questo “incidente” rivelatore della potenza messa in moto dagli scozzesi, è stato come vedere per un attimo la forza o la grazia che ci vuole per racchiudere e trattenere una mole di distorsione dentro architetture melodiche solide, vedere cosa succede in quel breve attimo in cui umanamente si è perso il controllo di tale potere, vedere in quell’apparente “cedimento” di struttura la potenza dei maestri che contengono il caos. La classe non può assomigliare a qualcosa di diverso.

Quando il concerto è finito (il concerto che gli altri concerti porta via) molti di noi ancora storditi non volevano credere di dover andare via, che la folgorante “epifania” fosse conclusa.
Ma l’essenza delle epifanie è quella della breve durata. A chi ha assistito resta il lungo viaggio di ritorno durante il quale riflettere e costruire un mondo interiore differente che riesca a influire sul mondo esterno. Festival musicali, concerti simili, luoghi dall’alone magico come l’antica Ypsigro servono anche a questo, a rendere il mondo migliore, di edizione in edizione, per tutto il tempo che ci serve per uscire dal bozzolo e divenire nuovi esseri.

(Stefania Italiano)

10 agosto 2011

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *