UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA, “Unknown Mortal Orchestra” (Fat Possum, 2011)

Bandcamp è ormai diventato quello che era myspace fino a qualche anno fa. Informazioni ridotte all’osso, grafica essenziale e un paio di tracce per far diffondere il proprio nome nell’etere (Kalporz li aveva scovati così nel novembre del 2010: link). Gli Unknown Mortal Orchestra non esistono? Misterioso progetto parallelo? E invece no. Sconosciuti, ma in carne e ossa. Da twitter si scopre la provenienza, Portland. E l’origine dell’ideatore del progetto Ruban Nielson, neozelandese. Al suo fianco Jake Portrait al basso e il giovane Julien Ehrich alla batteria. Dal tour che autodefiniscono molto alcolico e fatto di dormite un po’ ovunque nei fossi a una leg nord-americana al fianco di una delle band britanniche più celebrate dell’anno, gli Yuck.

Tutto inizia col successo telematico di “Ffunny Frends”, sbilenca filastrocca lo-fi. Successo replicato da uno dei tormentoni indipendenti dell’estate, l’intrigante “How Can U Luv Me”. E poi esordio per Fat Possum (vedi The Fiery Furnaces, The Walkmen, Wavves, The Black Keys).
Culto del fuzz, cuore motown, deliranti nostalgie tra funky primordiale e soundtrack spazzatura. Una vena à la Go Team soprattutto nei groove e nel calore black. La stupida e geniale a partire dal titolo “Strangers Are Strange” ne è l’esemplare.
A differenza dei suddetti revivalist inglesi, gli UMO guardano infatti più indietro nel tempo. Tra kraut e psichedelia sixties i tre dipingono spettrali scenari da “Tago Mago” dei poveri. O da Captain Beefheart in versione per famiglie. “Biocycle” stride che è un piacere. “Boy Witch” e “Jello And Juggernauts” si inerpicano in agrodolci visioni barrettiane.

Scorre il sangue psichedelico da improbabili rievocazioni di summer of love sulla west coast. Gli UMO suonano come la risposta nordamericana agli australiani Tame Impala. Senza prendersi troppo sul serio passando indolori dalla ballad “Little Blu House” alle ripide dissonanze post-punk di “Nerve Damage”. Chitarracce stridule e inascoltabili seguono al guinzaglio le svampite linee vocali. La bassa fedeltà rasenta il far suonare tutto di merda, eppure l’effetto alienante non risulta mai eccessivo davanti a canzoni di facile presa e motivi inesorabilmente canticchiabili.

Oscillare senza peso tra le fasi più pop dei Can, Beck e gli Avalanche e risultare freschi e d’impatto. La bizzarra orchestra mortale a modo suo segna un’infinita estate, lunga dal 1971 al 2001.

82/100

(Piero Merola)

25 Agosto 2011

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