“Amnesiac” e gli occhi verde acqua di Isabella

Questo odore pregno ed intenso di tiglio mi identifica subito che giornate sono, queste: ecco, siamo di fine maggio, inizi di giugno. Se mi bendassero e mi riportassero qui, da chissà quale pianeta, riconoscerei subito Reggio Emilia, credo, e questo tempo dell’anno. E ieri sera questo profumo era ancora più buono, tanto che dalla casa di mia madre mi è venuta voglia di addentrarmi nel parchetto dove ero solito, qualche anno fa, andare a correre per placare malamente i sensi di colpa da inerzia totale. E, in un turbinìo di rimandi sensorei, immediatamente mi è risuonata in testa una canzone, “Knives Out” dei Radiohead, e balenato – come un fotogramma fulmineo – un viso splendido di ragazza, quello di Isabella.

Ma era proprio dieci anni fa? Certo, era esattamente dieci anni fa, cazzo. Ah, allora buon compleanno, “Amnesiac”. Erano indubbiamente quei primi giorni di giugno 2001 quando, reduce dalla sbornia del concerto di Verona di fine maggio, mi era risalita la carogna-trip tremenda per Thom Yorke e soci, e la mia testa viaggiava quotidianamente a metà strada tra la terra, il cielo e i Radiohead. E, forse, Isabella.

Isabella era una bolla di sapone, una ragazza tanto limpida da essere trasparente, con degli occhi d’un verde acqua che erano un intero universo, anzi solo l’inizio di quell’universo. L’avevo conosciuta ai seggi, e avevamo scoperto che ci accomunava una passione, per me ormai sopita e per lei tutta da vivere. Oddio, definirla passione è davvero da senza cuore: il concorso in Magistratura. Massì, in realtà è vero: è una passione, perché una persona assennata non si imbarcherebbe in una roba del genere. Un progetto troppo mastodontico per una persona sola. Comunque: io le passai degli appunti, per me senza alcun significato, dei fogli che avrei bruciato molto volentieri, e poi iniziammo, così, a darci appuntamento quotidiano per una corsetta defatigante in quel parchetto, che era poi vicino pure a casa sua. Quell’appuntamento diventava giorno dopo giorno la cosa più importante che ci fosse. Probabilmente per entrambi. Lei condivideva l’angustia dello studio matto e disperatissimo, e io la incoraggiavo, ma più che altro di discorreva di tutto, di vita, soprattutto. Più la conoscevo e più lei mi sembrava innocente, quasi sperduta, ma con una determinazione da cavallo che le rodeva dentro. Una ragazza mite come non ne avevo mai conosciute, e allo stesso tempo con un fuoco vivo che la muoveva.

Le parlai estasiato per così tante volte di “Amnesiac” che arrivò a chiedermi di farle un cd, e io, come un novello Rob, glielo feci. Ma non lo capì, e ne ero certo: i Radiohead erano troppo malati, troppo aggrovigliati da permettere che quegli occhi così in pace con il mondo potessero entrarci in sintonia. Però ne rimase affascinata senza capirli, o almeno così mi disse.
Poi, improvvisamente, si scaravoltò il mio mondo e dovetti partire, per qualche tempo. Quando a settembre passai il concorso che a me era rimasto, mi regalò “La Repubblica delle banane” di Gomez e Travaglio, con una dedica bellissima. Commovente.
Non la sentii per diversi mesi fino a che, un giorno dell’anno successivo, mi arrivò inaspettata una telefonata: “Ho passato oggi l’esame in Magistratura, stasera andiamo a festeggiare?”.

Da allora non l’ho mai più vista e sentita, ma la immagino a fare il Giudice nella Repubblica delle Banane con quegli occhi che il tempo e la vita avranno costretto a diventare meno innocenti, tirando fuori quel fuoco vivo che aveva dentro. Ma, in fondo, spero che non abbia mai poi potuto capire in profondità i Radiohead: vorrebbe dire che è ancora così, come dieci anni fa, mite e con quell’universo placido nell’anima.

A Isabella

(Paolo Bardelli)

7 giugno 2011

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