Sleigh Bells, Concerto al Covo, Bologna (4 febbraio 2011)

Finalmente in Italia il folgorante duo tra i più originali dell’onnipresente e onnicomprensiva scena di Brooklyn. E dove se non al Covo? Davanti a 50 fortunati al massimo. Forse perché c’è chi ha deciso di buttarsi su Verdena o My Awesome Mixtape (eh sì, roba nuova, in zona!). Ma conta poco. Solo dispiace un po’ per loro che avrebbero meritato di più. Non folle oceaniche quando nel loro battesimo europeo al Primavera Sound 2010, duemila irriducibili – non il sottoscritto – presenziavano alla loro esibizione durante quella dei Pavement nel main stage.

Ma almeno una risposta da venerdì sera degna di un nome del genere, per la prima volta in Italia. Peraltro lanciato da M.I.A. non a caso. Per una voce affine e per le trasversali scelte stilistiche. La formula degli Sleigh Bells è tanto semplice e ripetitiva, quanto d’impatto. Per l’incredibile ma avvincente simbiosi di basi tra break-beat e hip-hop e un diluvio di esplosivi overdrive dalla chitarra molesta di Derek E. Miller sparati ai limiti del fastidio e la voce da puttanella di Alexis Krauss. Avulsa e aliena dalle tempeste soniche del socio. Un fan degli Slayer, ex-chitarrista del gruppo metal-core Poison The Well e un’ex-cantante di un gruppo teen-pop. Un’accozzaglia da far sbavare il più disilluso degli ideologi hipster. Il riff di “South Of Heaven” su un intro di campane. Vere, quasi da AC/DC più che da campanelli da slitta da cui il loro nome. Un muro di marshall apparentemente incomprensibile. Il motivo si scoprirà presto. E si chiama “Tell’em”, poderosa apertura e piccolo classico dei due. In un continuo e disturbante strobo a rendere l’aria ancor più irrespirabile. Saranno pur sempre delle basi, ma distorti beat degni del Go! Team annichiliscono.

L’acrobatico chitarrista taglia queste istantanee noise-pop con riffacci e suoni da censura. Eppur funziona. Lei fa la vamp cedendosi ai maniac(i) delle prime file, nonostante una forma fisica e un look discutibile. Maglia da football con dietro BELLS, N.99. Frangettona. Movenze a metà strada tra uno spettacolo chic orientale e una pantomima hip-hop da M.I.A. dell’idroscalo. Eppure funziona. Scene di panico e clamore, almeno nelle prime file. I brani vengono eseguiti tutti. Tranne “Rachel”, degnamente sostituita dalla marziale paranoia di “Holly”, b-side di “Tell’em”. Che fare poi una scrematura nell’unico album di 36 minuti realizzato dalla band sarebbe stato un suicidio. L’LP in questione, “Treats” del 2010 co-prodotto da M.I.A., è un piccolo capolavoro di ignoranza. Da risposta ignorante ai Fiery Furnaces. Ignoranza e schiettezza che sul palco ha il suo perché. Nel loro saper essere front(wo)man a meraviglia sopperendo alla mancanza di una band di supporto. “Wake Up”, sbottano un paio di volte. Non ci si mette tanto ad accogliere l’invito. Le dissonanze spinte oltre gli eccessi di “A/B Machines” e “Kids”, la tagliente “Infinity Guitars”. E’ un continuo shock.

“Riot Rhythm” si riassume nel titolo. La voce a volte si perde nel fragore, ma si risolleva quando il socio si dà una tregua nei terribili fendenti.In un perenne sguardo truce da cattivo dei film che rende il tutto ancora più grottesco e surreale. Ci saranno troppe basi e campionature? I brani tutti uguali? Sti-cazzi! Gli Sleigh Bells hanno trovato la loro piccola dimensione e in questa dimensione non manca davvero nulla. Arriva anche il momento accendini o di sosta. Le basi si acquietano e la chitarra molesta smette di ondeggiare. “Rill Rill”, sample è preso dalla mitica “Can You Get To That” dei Funkadelic, dà l’idea di una “Paper Planes” di uno “Slumdog Millionaire” ambientato nella Brooklyn di qualche decennio fa. Quando tutto era fuorché l’epicentro della scena indipendente mondiale. Gli infernali Sleigh Bells, senza bis e con la micidiale “Crown On The Ground” (uno dei brani-simbolo degli ultimi anni e di questi tempi) a chiudere baracca e burattini, sono in questo epicentro. E dal vivo in tutte queste contraddizioni lo dimostrano e lo urlano con la stessa modulazione della Krauss quando geme strillando “Bologna”. L’arte di suonare di merda per un coito interrotto al trentacinquesimo minuto.

(Piero Merola)

5 febbraio 2011

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