GURUBANANA, “Karmasoda” (Shyrec, 2011)

Esce in questi giorni di freddo e rincari salassanti, camuffati, come da copione, sotto la forma maldestra di saldi all’ultimo sangue, il secondo album dei Gurubanana, edito dall’interessantissima etichetta veneziana Shyrec (vi ricordate tutto il bene che scrivemmo all’epoca a proposito dei magnifici Zabrisky?). La creatura di Andrea Fusari e del venerando Giovanni Ferrario (già nei Micevice patrocinati da Hugo Race e poi intelletto felicemente creativo e di gran risma per gran parte dell’indie italico più appetibile) si porta, già nelle poche sillabe del bislacco appellativo prescelto (che viene, per inciso, da una canzone datata 1975, in combutta con un Elton John da riscoprire, del folletto canterburyano Kevin Ayers), una fascinazione tutta sua per quella scuola degli eccentrici britannici alla cui corte scapigliata ci siamo con sommo orgoglio diplomati pure noi, disimparando quanto di ragionevole (e dunque inesatto) questo mondo aveva stampigliato in bella calligrafia nei nostri cervelli. Un’istituzione piacevolmente complottarda di spiriti ondivaghi e saturnini che vanno da Arthur Brown per arrivare fino a Neil Hannon, passando attraverso la Bonzo Dog Bond, Robyn Hitchcock, Andy Partridge e le inestimabili produzioni della El Records. Un olimpo che peraltro si ritrova senza troppa fatica nelle imprese del duo in analisi.
“Karmasoda” conferma in pari misura le apprezzabili doti di camaleontismo stilistico così come l’eclettismo scaltramente trasformistico e tutto all’italiana (il giro di “B.J.Core” è un furto zeligiano bello e buono a “Day Tripper” dei Fab Four, e chissà quanti altri e meno evidenti se ne annidano tra le pieghe del disco) che il gruppo aveva già messo in bella mostra nella prima omonima puntata, allargando tuttavia a questo giro, com’è giusto, il ventaglio di sottogeneri rielaborati con ammirevole puntiglio sotto le lente deformante di un estro compositivo sempre vivo e imprevedibile. Qualcuno ha parlato di uno spostamento strategico in territori post-punk, ma questo appare vero soprattutto se non esclusivamente per il numero molto Factory-joydivisioniano di “Liza Show” (uno dei vettori dell’album, assieme indubbiamente a “Monochrome Elvis”, che pare la risposta italiana in inglese a “Young Folks” di Peter, Bjorn & John). Altrove la vena si dibatte con brio sottile e battuta sempre pronta nella stratosfera onirica e solubile di uno psycho-pop illusionistico, che talvolta ricorda i sortilegi di Beck o dei Flaming Lips (sentite “Unscheduled”) o anche di uno Sparklehorse (anche e soprattutto l’ultimo e più narcolettico in compagnia di David Lynch e Danger Mouse), e talaltra gli Elbow, tra gli ultimi combattivi superstiti della stirpe britannica di cui sopra (si senta l’apertura “Enter Any Question”).
Nulla da eccepire allora. Disco consigliato, per un’Italia in cui ogni tanto (ma non troppo spesso) è ancora lecito confessare di barrare la parola “pop” dentro l’urna del gusto, senza per questo esporsi necessariamente alla sassaiola moralistica e inquisitoria delle accademie della buon costume musicale .
Piacerebbe vederli, nel prossimo futuro, in azione con una produzione ancora più ambiziosa e attrezzature da kolossal.

(Francesco Giordani)

Collegamenti su Kalporz:
Zabrisky – Northside Highway
News – “You probably thought I’m a shy guy – Shyrec Camp Vol.  3″ (19.12.2010)

10 gennaio 2011

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