Back To The Future Vol. 12 – Henry Cow

La “Scuola di Canterbury”, dalla città del Kent in Inghilterra, ha rappresentato uno dei momenti più innovativi e rivoluzionari del Rock negli anni ’70. Le espressioni melodiche dei musicisti di questo speciale luogo geografico hanno radici variegate e strutturate su più influenze musicali, miscelate sapientemente e fortemente legate alla natura “magica” deila personalità dei musicisti stessi. Una alchimia ambiente-uomo ancora da chiarire.
Steve Hillage, David Stewart, Hugg Hupper, David Allen, Robert Wyatt, Mike Ratledge, Kevin Ayers, Fred Frith, Karl Jerkins, Phil Miller, Pip Pile, Andy Ward, Geoff Leigh sono solo alcuni rappresentanti e tantissimi altri, come Alan Holdsworth, William Bruford etc, sono rimasti influenzati dalle sonorità e dalle metriche melodiche originali.
Figure nate quasi in sordina e presto diventate mitiche, grandi, nonostante la loro quota artistica sia stata occultata (soprattutto) dalle riviste di Rock di quegli anni. La loro produzione non è mai entrata nelle classifiche ufficiali ma è abbastanza nota e ben conosciuta dagli amanti della buona musica.
Molti sono gli artisti che sono considerati fondatori ignari di quella che è stata definita “scuola”; nati da gruppi diversi ma con una anima musicale originale sia nella struttura compositiva che nella cura dei suoni. I singoli rappresentanti dei gruppi storici della scuola hanno realizzato, nel tempo, opere di eccezionale bellezza e gusto. Gli Henry Cow sono stati uno di questi.
Quello che vorrei scrivere non è una recensione sul gruppo; probabilmente esistono molte pagine in merito, ma mi piacerebbe raccontare, se mai ci riuscirò, il fascino che esplodeva dalla loro musica live. Vorrei raccontare come, attorno al 1976, durante le prime fasi di gestazione della disco dance (non amo applicare il termine musica a quella forma sintetica di suoni), rimasi meravigliato del fatto che in un piccolo centro della provincia della città dove abitavo ci sarebbe stato un concerto degli Henry Cow. Una cosa da non credere; questi musicisti venivano dall’Inghilterra (in furgone) per suonare nel profondo sud della nostra Italia. Si spostavano proprio come noi ma facendo migliaia di chilometri, con soste per cucinare qualcosa e riposare. E venivano a suonare per poche centinaia di migliaia di lire. Ebbene era proprio così; sapevano che l’Italia era un “trampolino” di lancio, un bacino di esperti ed attenti ascoltatori di musica dal palato raffinato e dai gusti delicati ma decisi. Sull’onda della speranza di incontrare un pubblico caloroso e preparato si erano avventurati decisi. Ed hanno fatto bene.

Presentavano il loro quarto lp “In Praise of Learning”. Un disco bellissimo ma, come gli altri, poco curato nel missaggio; oggi posso affermare che probabilmente non era un problema di missaggio ma della qualità scadente della pasta del vinile. La loro etichetta discografica era quella degli artisti economicamente più poveri ma artisticamente più ricchi. Non fu difficile avvicinarli e scambiare con loro idee e commenti per ricavare notizie importanti riguardo alla loro vita musicale. Ricordo ancora che Chris (il batterista) ad un certo punto ci lasciò dicendoci che “doveva prepararsi” per suonare, si allontanò ma in una direzione diversa da quella del palco. Eravamo sul lungomare di Milazzo; lo seguimmo con lo sguardo. Si fermò in una parte non affollata, si sedette su uno dei blocchi lungo la battigia davanti al mare, gambe incrociate, capelli sciolti, busto eretto ed occhi chiusi. Stupendo, magico.
Sul palco niente “impianto” scenico di luci se non una lampada da salotto; strumenti essenziali di ottima qualità, curati, ben tenuti e custoditi. Collegati agli strumenti alcuni curiosi (alcuni artigianali) “effetti” elettronici, rigorosamente analogici, ed una serie di “soluzioni” custom per ottenere effetti su suoni puliti. L’impianto PA (Public Addressing) era appena sufficiente per fare uscire qualche migliaio di Watt di potenza per soddisfare una piazza di media grandezza. Prima o poi troverò quelle foto.

Da quei concerti, da quelle stesse registrazioni, è stato successivamente ricavato un doppio album live: “Concerts” (Caroline Records, 1976). Un album bellissimo. Uno dei miei amici, coinvolto da me a seguire (a forza) quei concerti, mi regalò dopo un suo soggiorno a Londra, una copia a ricordo e soprattutto come omaggio di riconoscenza. Il disco in Italia era introvabile se non attraverso i canali di “importazione” (via postale) dell’epoca con tutte le difficoltà di pagamento in valuta straniera.
“Concerts” è uno dei dischi che amo e custodisco con maggiore attenzione, sia per il contenuto che per la messe di ricordi che contiene e (all’occorrenza) scatena. La voce sonora e vibrante di Dagmar Krause apre il concerto con “Beautiful as the moon – Terribile As An Army With Banners, e spiana lo spazio sonoro alle frasi introduttive cariche di ricami strumentali. Note inviluppate della chitarra di Fred Frith fanno battere il cuore che cerca, incessantemente, di seguire i disegni ritmici su piatti e i tamburi della batteria di Chris Cuttler, fanno da prologo al tema introdotto dal fagotto di Lindsay Cooper e dalle tastiere di Tim Hodgkinson, tutto ricucito e rifinito insieme, talvolta anche all’unisono, da una linea del Basso di John Greaves. Non si può “spiegare”.Come sempre mi accorgo quanto difficile sia parlare di musica con le parole ed ancora una volta invito ad ascoltare il brano e non (certo) la spiegazione.
Mi piace ricordare, per chi non c’era ma ama la conoscenza, alcune curiosità che hanno stimolato in noi, allora, una serie di domande (fatte ai componenti degli Henry Cow), colme di meraviglia per quello che abbiamo visto ed ascoltato. Fred Frith su una delle (2) chitarre che usava, aveva posto un microfono sulla paletta (la parte dove ci sono le macchinette per tendere le corde) per ricavare alcuni suoni dalla parte rimante della corda; un effetto che non ha uguali e che non è mai stato imitato con tale risultato. Chris Cuttler, per ottenere alcuni “effetti” sui tamburi utilizzava, a volte, un cucchiaio di legno; quello da cucina che ognuno di noi ha in casa per mescolare. Tim, con grande nostro stupore usava un organo elettronico di fabbricazione italiana, un Farfisa Compact De Luxe (felicemente colorato con nuvole azzurre e bianche), uno strumento utilizzato negli anni ’50 nelle Balere e Night Italiani e mai preso in considerazione, come strumento professionale, dalle generazioni Rock. Ed infine cosa dire quando John Greaves, serenamente seduto (come tutti tranne Dagmar), tirava fuori dalla tasca della giacca la sua pallina da ping-pong che utilizzava come plettro? Che suoni, ragazzi.

(Renato Gentile)

Le puntate precedenti
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Back To The Future Vol. 7 – “I figli degli operai, i figli dei bottegai!”
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Back To The Future Vol. 5 – Gli Air sul pianeta Vega
Back To The Future Vol. 4 – “Stay” e gli angeli degli U2
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1 febbraio 2011

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