Pontiak, Concerto al Magnolia, Milano (3 novembre 2010)

Matteo vide i Pontiak all’uscita di “Maker”, in un locale praticamente vuoto, e mi raccontò di un esperienza incredibile. Passò più di un anno e i tre fratelli americani tornarono in Italia per presentare Sea Void, disco stampato solo in vinile, e volli accompagnare Matteo per toccare con mano le sue dichiarazioni. La gente non era più quel mugolo sparuto di persone, ma una entità più consistente (vuoi anche per i White Hills come spalla) accorsa grazie anche il fattore aggiunto che cercherà di salvare la musica, ovvero il passaparola.
Rimasi stupito da quella miscela in crescendo di rock, blues e psichedelia canalizzata attraverso un impatto live ai limite del doom, con chiare influenze post-rock. In pratica non ci capii un cazzo, ma mi sembrava esaltante avere di fronte un gruppo che riusciva a coniugare l’algebrica dei Fugazi, lo stoner psichedelico e il folk in una sola ora di concerto. Mi documentai, mi portai a casa i vecchi dischi, e all’uscita del nuovo “Living” (un disco immenso, forse il migliore dei quattro finora prodotti) trepidai di rivederli dal vivo. Ovviamente, come Matteo fece con me, divulgai il verbo e, in un Magnolia non ancora gremito proporzionalmente alla grandezza del trio, assistemmo ad un altro concerto memorabile. I fratelli Carney, dalla Virginia, sono l’antitesi della modernità, visivamente parlando, ma sono in grado, attraverso la loro musica, di affondare i denti nella sperimentazione più ardita, masticarne la carne e sputarla sotto forma di tradizione. Dall’iniziale blues contro tempo di Young, il concerto esplora immaginari scenari psichedelici triturando la classicità fine a se stessa dei Black Mountain e, al contempo, estrapolando una vena assolutamente distorta ma all’occorrenza agrodolce (vedi alla voce “Second sun”).

L’apice della loro esibizione live, come nei precedenti, è rintracciabile nella magistrale esecuzione di “Maker”, pezzo che acquista senso a metà della loro esibizione: lunga, caotica, sporca, viscerale, è pane quotidiano ricercato per chi crede ancora che il rock non sia solo sottofondo, ma pure partecipazione empatica.
Io e Matteo usciamo frastornati e soddisfatti: se un live diventa ancora più entusiasmante per il semplice motivo di averlo condiviso con buoni amici, allora la buona riuscita è inevitabile. Il rock non è sola e semplice libidine personale, anzi, può essere il veicolo per creare una simbiosi collettiva o deterrente ideale per rafforzare amicizie nate dall’amore sviscerale per questa musica che, a distanza di quasi mezzo secolo, continua a scuotere corpi e coscienze.

(Nicola Guerra/Matteo Ghilardi)

12 dicembre 2010

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