DEERHUNTER, “Halcyon Digest” (4AD, 2010)

Senza retorica, i Deerhunter sono una di quelle band che danno fiducia nel presente. Non inganni la romantica campagna promozionale che oltre alla tracklist ha regalato in anteprima il brano ai fan più collaborativi nell’offrire alla causa una loro foto. I Deerhunter sono una band di questi tempi. Lo dimostrano i mezzi usati e le collaborazioni, quali quella con Ben H.Allen, uno dei demiurghi più fedeli degli Animal Collective. Difficile dare un’idea di quello che ai Deerhunter hanno offerto di così significativo per l’attualità. Formazione rock apparentemente classica nella sua struttura a quattro, ma approccio tra lo psichedelico e lo sperimentale ormai sempre più attento alla melodia rispetto agli esordi da risposta buonista ai Liars. L’ottimo “Microcastle” aveva portato in superficie la loro attitudine per un guitar sound da degna band indie americana ’80-’90.

Al quarto disco in sei anni, con eccellenti side-project quali Lotus Plaza e i due impagabili episodi con Bradford Cox nei panni di Atlas Sound. Da qui si dovrebbe partire per provare faticosamente a seguire l’ineffabile traiettoria dei Deerhunter. Cox in “Logos” del 2009 aveva dato un saggio delle sue doti cantautorali in un compendio di ballad figlie del pop visionario dei Sixties semi-acustica ma mai ostili al trattamento digitale. “Revival” (come gli unplugged da intimismo lunare di “Sailing”e “Basement Scene” o la sghemba “Don’t Cry” da omaggio dei Pixies a Syd Barrett) in cui le scariche elettriche non mancano, palesa subito certe suggestioni. Ma nelle emozioni che pervadono e che trasmette Cox più che nella scelta degli arrangiamenti. I loro rimandi sono così impalpabili e irrilevanti rispetto alla loro formula – uno dei rari casi attuali – del tutto peculiare e riconoscibile. Né si tratta di Atlas Sound volume terzo. “Helicopter” darebbe la stessa sensazione, ma le imperscrutabili traiettorie ambientali da Panda Bear che rivisita Lennon, accentuano le trame tipiche del secondo album “Cryptograms”. Un eterno ponte nel nulla tra Beatles e 4AD che aleggia anche in “Halcyon Digest”.

“Earthquake” poi offre un’intensità da Radiohead della Georgia. Downtempo trip-hop, arpeggio ultraterreno, la dolente e sofferta voce di Cox si incastra tra echi soffocanti. Poi “Memory Boy” spiazza per dei tratti beat scanzonati e maledettamente vibranti. E quando ci si aspetta uno spietato revival lisergico da summer of love, torna fuori l’anima rock più dissonante del quartetto di Atlanta. Quella che animava lo spirito di “Microcastle”, uno degli ultimi album rock di un certo spessore e di un senso contemporaneo sputati fuori dal nord-america. Le chitarre vanno verso il nulla in crescenti e ronzanti stridori shoegaze spingono in cielo i sette minuti di “Desire Lines”. La svagata anima dei tratti più eterei e inconsistenti dei Velvet Underground assume un colore quasi glam, quello del Lou Reed partner di Bowie in “Fountain Stairs”. Ma sono sempre e comunque i Deerhunter. Più ci si sforza di includerli in una tradizione, più bruscamente il loro sound, multiforme ma stabile in un sound ben distinguibile, lascia a bocca aperta. Per dire “Coronado” darebbe l’idea dei Pavement con Malkmus che fa il Lennon della situazione. E il sax? Anarchia espressiva di buon gusto e mai trasfigurata in accumulazioni additive di suoni e idee slegate . I Deerhunter non perdono mai il dono dell’essenzialità. E chiudono il cerchio apertosi in “Earthquake” in un altro brano da risposta nord-americana ai Radiohead. L’orchestrazione, la tribalità dell’incipit, l’alienazione vocale di Cox che se non altro per una questione di origini ha più del cyber-Dylan che del cyber-Lennon, aprono un agghiacciante buco nero in chiusura di disco.

Capire se l’America ha trovato i suoi nuovi Velvet Underground può sembrare una provocazione o quantomeno prematuro visti i decenni necessari all’America per capire l’importanza dei suddetti e farebbe sfuggire il senso dei Deerhunter. Lasciando perdere ogni diatriba, annegare nell’ovattata inquitudine dei loro panorami senza tempo resta un esercizio d’ascolto unico. E un’autentica esperienza di distacco con pochi eguali nella musica contemporanea in un ambito assolutamente rock ma a tratti più ambientale dell’ambient stesso.

(Piero Merola)

04 ottobre 2010

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