Veronica & The Red Wine Serenaders – “Veronica & The Red Wine Serenaders” (Totally Unnecesary Records, 2010)

“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole/anzi d’antico” mi ricordo questi versi al levarsi delle prime note di “Bootleggers Blues” dei leggendari Mississippi Sheik, suonate però senza scoppiettii, graffi, polvere, con un suono nuovo di zecca, rotondo, non ancora usato e usurato, tremendamente cool. Sono Veronica & The Red Wine Serenaders a produrlo, non da distanze temporali sempre più remote o da aree geografiche circoscritte al vasto delta del Mississippi, ma da uno studio di Milano, e per la precisione nei mesi di gennaio e aprile del 2009. Insisto sulle coordinate spazio-temporali per provare a trasmettervi il pizzicore dietro la nuca e la sensazione di noce in bocca che inizialmente paralizzano le facoltà della percezione e della logica.

Iniziare con una delle canzoni country blues più simboliche per le implicazioni filologiche, tematiche e atmosferiche da lì a venire significa accettare il biglietto per un giro nella casa degli spiriti. Parte una giostra magica che inizia a girare per noi in un accumularsi prodigioso di immagini: gli show medicine, le sedie a dondolo sotto i portici in pomeriggi assolati o in tramonti ameni, una pipa, una voce tabaccosa, bicchierini di whiskey, un banjo, la Legge che ti insegue senza tregua, i giramondo, e tanta povertà. E ancora: il cantato strascicato per un dolore che l’alcool centuplica, il violino maltrattato in modo sublime che tante ballate plasmerà, il contrabbasso annoiato che si crede un gentleman, la chitarra, oh la chitarra, nuova diabolica compagna di sfide lanciate all’ormai logorato, povero diavolo.

Li dobbiamo ringraziare Veronica Sbergia e i suoi Red Wine Serenaders, per il loro omaggio coerente che persegue una finalità limpida, manifesta, esemplare nella sua devozione, che ci ricorda prodigiosamente la cosa più semplice ed eterna che si possa sapere e dire, quanto la musica sia una cosa meravigliosa, e quanto per essa generazioni tramontate da anni possano tornare a parlarci con la stessa consistenza di una presenza materiale hic et nunc. Dobbiamo ringraziare chiunque attraverso la sua passione, sia in grado di ricordarci ogni volta chi siamo veramente e cosa desideriamo nel silenzio del nostro cuore. Anche quando la fatica della passione produce solo un pianto dietro la porta dell’amato/a che non aprirà mai.

I 14 brani intrecciati come un’unica grande melodia storica sono un pò quel pianto, un interrogare un tempo che in parte non risponde più, una disperata seduta spiritica nella quale ci illuderemo di sentire la voce dell’evocato. E causa di ciò è il tenore dell’intero album, che è di un entusiasmo, di una lucentezza, di una gioia del creare, dell’onorare, del magnificare, che fa venire i luccicori agli occhi. Che in fondo, a non essere smemorati, era il tenore della musica in questione, generata in anni poveri e disperati eppure tanto entusiasti del solo essere ancora vivi. È vero, siamo posti di fronte a un’Arcadia non più riproducibile, un luogo interiore della musica che resta avvolta dall’offuscato sentimento dell’irrecuperabile, del cuore di qualcosa ormai irraggiungibile, un mondo popolato da mitiche figure a metà tra peccaminosi uomini perduti ed eroi sciamani con il potere della musica guaritrice. Eppure eppure eppure… c’è un insegnamento che emerge. Non so dove veramente ci conduca “Nobody Knows But Me”, “Doggone My Soul”, “Lovesick Blues” o “Mr Ambulance Man”… ma se vogliamo riportare in vita qualcuno in genere è perché desideriamo che ci dica ancora qualcosa, che faccia luce, che ci dia speranza o pace.

Infatti se dopo il penetrante lavoro di dissotterrazione delle radici in “Busy Bootin'” arriva il momento di “Lullaby Of The Leaves” dove realizziamo che è un amore impossibile quello che stiamo provando a rianimare con la stessa pena e follia frankensteiniana, quando siamo quasi alla fine del rito con “I Wanna Go Back To My Little Grass Shack” non solo sappiamo del desiderio di Veronica e i Serenaders di ritornare ad un luogo musicale che è soprattutto un ritorno a casa, ma impariamo anche con quale trasporto pieno di vita, di illogica e amata vita, si deve cantare sulla strada del dolore: che colpa abbiamo noi se il ritorno è verso un luogo di fantasmi? Conta la gioia con cui celebrare, con cui esistere fino alla fine. E con questi 14 brani ci viene dato un dono d’alto rango, l’offerta di una visione del passato dove imparare a vivere era più emozionante, poetico e profondo. Ognuno di noi saprà poi, in cuor suo, come custodire la visione donata.

(Stefania Italiano)

01 Settembre 2010

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