Les Claypool, Alcatraz (Milano) (11 marzo 2010)

Alla notizia di un live di Les Claypool c’è un’altissima probabilità di trovarsi a subire qualche argutissima critica, come ad esempio “Ma vai a vedere uno che si masturba sullo strumento”. Di contro, la fazione opposta (quella dei fieri masturbatori, spesso in combutta con la temibile ghenga del prog) inizia a pompare ormoni al solo pensiero di una decina di minuti di doppio tapping su basso a sei corde.

Non del tutto torto, ma decisamente poca ragione da entrambe le parti. Chiariamo: che Les Claypool sia diventato una specie di feticcio per i cultori del bel suono e certi onanisti dell’assolo non è di certo un segreto. Dopotutto vedere in mezzo alla folla un tizio con la maglietta di “Aja” degli Steely Dan è un fatto che parla da solo e che al colpo d’occhio lascia atterriti. Ma c’è un altro fatto che voglio considerare, e cioè che il tizio in questione l’ho notato mentre se ne stava andando una ventina di minuti prima della fine. Ora, chiediamoci, “Perché se ne stava andando?”. Ve lo dico io: perché non è roba per lui.

Il fatto è che Les Claypool, a differenza di qualunque altro eroe dello strumento, è dotato di una caratteristica fondamentale: la pazzia. La sua è una di quelle lucide, di quelle talmente organizzate da risultare ambigue e controverse, al punto da far illudere uno qualsiasi di questi brutti ceffi nati in pensione e portarlo ad ascoltarsi l’ultimo “Of Fungi And Foe” sperando in un bel susseguirsi di scale articolate. Bello poi vedere la loro faccia quando il disco si rivela come una specie di figlioccio di Tom Waits, fra percussioni ossessive, contrabbasso sempre uguale e neanche un accenno di chitarra elettrica. Ah, che smacco.

E fu così che durante la pausa prima del bis il vostro eroe sente la fatidica critica: “Sì ma almeno una chitarra ci poteva stare”. Eh già, perché seguendo l’esempio dell’ultima notevolissima fatica discografica del Nostro, la formazione di questo tour appare a dir poco inusuale per l’ascoltatore rock medio: ad accompagnarlo sono infatti – oltre ovviamente alla batteria portentosa di Paulo Baldi – il violoncello iper-effettato di Sam Bass e tutto il set di percussioni, tabla, marimba e vibrafono di Mike Dillon, tutti e tre con i volti coperti da maschere che ne hanno distorto le reali fattezze con effetti inquietanti. Mai nella mia vita mi sarei immaginato ad un concerto del genere, soddisfatto dell’assenza dell’amata chitarra. Che liberazione, non avete idea.
Sia chiaro, di assoloni ce ne sono stati eccome per tutti e quattro i componenti, ma bisogna ammettere un certo tipo di sollievo quando a conti fatti si realizza di aver ascoltato più momenti di marimba (effettata, tra l’altro, con delay vari) che di qualunque altro strumento.

E poi le canzoni, la cosa più importante. Si apre con un pezzo da “Of Whales And Woe” seguito da uno dei Primus (“Rumble Of The Diesel” e ”Duchess And The Proverbial Mind Spread”) e si chiude all’inverso (con le attesissime “Southbound Pachyderm” e ”One Better”). Nel mezzo, numeri dai vari progetti solisti o meno: oltre all’ovvio “Of Fungi And Foe” (accolto un po’ tiepidamente), anche una “Precipitation” (da “Highball With The Devil”) suonata con tanto di maschera da suino e movenze da cartoon, e un po’ di pezzi tratti dal bellissimo e zappiano “Purple Onion” a nome Frog Brigade, fra i quali una “Ding Dang” talmente coinvolgente che vede il buon Enrico Gabrielli dei Calibro 35, casualmente a fianco a me in mezzo alla calca, lanciato in una session di air-guitar presa-a-bene.

Unico momento un po’ ridondante, l’interminabile assolo di batteria e percussioni con Baldi e Dillon lasciati da soli sul palco a macinare ritmi senza sosta in una maniera tanto spettacolare quanto, alla lunga, sfiancante. Nel mezzo, ad alleggerire miracolosamente la situazione, un Les Claypool con maschera da gibbone che salta sul palco con mosse scimmiesche per l’attesissimo “momento whamola”: il celebre basso mono-corda con una leva per aumentarne la tensione e percosso con una bacchetta. Praticamente il suono di una molla distorta.

Insomma, risate e simpatia in mezzo ad uno show di ecletticità estrema come raramente se ne vedono. Les Claypool saluta quello che aveva inizialmente definito “a spectacular group of human beings” alzando la bombetta e Milano non ci pensa due secondi a ringraziare calorosamente.