JEFFREY LEE PIERCE SESSIONS PROJECT, We Are Only Riders (Glitterhouse, 2010)

Una volta tanto fa piacere iniziare dicendo che noialtri, qui, in Italia, ci avevamo già pensato. E’ ormai vecchio di qualche anno un tanto riuscito quanto ignorato tributo intitolato “I knew Jeffrey Lee”, che vedeva gli ottimi milanesi Circo Fantasma radunare la crème del rock alternativo nostrano in una sentita raccolta di cover, scelte (anche) dal repertorio del fu leader dei Gun Club.

Poi si valica l’oceano e, come sempre accade, i nomi e i mezzi a disposizione sono di ben altra caratura: secondo la leggenda, è stato il chitarrista Tony “Cypress grove” Cmelik a riesumare dai cassetti della propria scrivania un vecchio nastro impolverato con le bozze dei brani esclusi dalla scaletta di “Ramblin’” (l’album che incise lui e Pierce incisero assieme nel ’92). A dare una forma definitiva a quelle incisioni provvedono, anni dopo, amici e estimatori illustri di JLP, e il cast è di quelli notevoli: Nick Cave e Mark Lanegan, tanto per cominciare, danno il via alle le danze in un fosco uno-due, per poi riapparire più sereni e in dolce compagnia – con Debbie Harry l’uno e con l’ormai inseparabile Isole Campbell il secondo. La voce dei Blondie, che del cantante fu prima madrina artistica, si prodiga anche nell’unica interpretazione non inedita del lotto: una struggente cover di “Lucky Jim” tratta dall’omonimo disco che nel ‘93 poneva fine all’avventura dei Gun Club. La lista degli invitati prosegue con Mick Harvey, David Eugene Edwards dei Woven Hand, lo stesso Cypress Grove e perfino Lydia Lunch, con una voce tanto lamentosa e arrugginita da assomigliare a quella di un Dylan in gonnella.

Gli schizzi lasciati incompiuti da Jeffrey lee assumono via via forme e colori diversi, diventano un pretesto per sperimentare nuove accoppiate e formazioni inedite, fino al “tutti” conclusivo di “Walkin’ Down the Street (Doin’ my thing)”, scelta – a ragione – come brano manifesto. Tra i pochi limiti della raccolta c’è l’esiguo numero dei brani originali, che costringe i tanti partecipanti a misurarsi sempre sulla stessa manciata di spartiti: poco male, se è proprio questo limite che dà la possibilità di assistere alle evoluzioni di un brano come “Ramblin’ Mind” (tra tutti, il più rifinito) che dal blues piano e regolare interpretato da Cypress Grove passa ad un inquieto country&western per la voce di Eugene Edwards e si trasforma quasi in una danza voodoo-billy quando si ritrova tra le sapienti mani di Nick Cave.

In più di un’occasione durante l’ascolto di “We are only Riders” sembrerà di risentire una lontana eco delle galoppate di marca Gun Club. Ma – ad eccezione forse delle escursioni più elettriche dei Cripped Black Phoenix e del vecchio Johnny Dowd – la gran parte del disco pascola dalle parti di un roots a bassa fedeltà, scuro e doloroso, confermando una tendenza che ha interessato più o meno tutti gli omaggi postumi a Pierce – i succitati Circo Fantasma compresi.
Per una strana legge della nostalgia, chi ieri ha conosciuto e amato da vicino la musica della band losangelina oggi sembra non poter fare a meno di ripensarla solo nella sua dimensione “intimista”, come se il tempo l’avesse spogliata delle componenti più incendiarie per mantenerne intatta solo la vena dolente. E’ una sindrome che va oltre l’antologia in questione e che tocca anche tutti gli omaggi precedentemente resi dagli stessi vecchi amici, Lanegan e Harvey in testa.
Inediti o noti che siano, i pezzi di Jeffrey Lee Pierce passano ormai con estrema facilità da una bocca all’altra, conoscono mani e repertori anche molto distanti tra loro ma ne escono sempre inconfondibili, come accade soltanto ai grandi standard del blues americano. E se nelle note di copertina Wim Wenders, altro estimatore illustre, esagera un po’ a scrivere del “più grande autore blues di sempre”, non fateci caso: sa bene di che cosa sta parlando.

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