NEON INDIAN, Psychic Chams (Lefse, 2009)

Provate a chiamarlo electro-pop. Provate a chiamarla chill-wave, riconducendo il tutto alla nuova scena electro di Seattle. Oppure hypnagogic-pop dal termine coniato per definire questa stramba elettronica a bassa fedeltà dai tratti molto dormiveglia. Provate con psichedelia, con lo-fi, synth-pop ma comunque non funzionerebbe. Se Memory Tapes e Washed Out possono in parte essere accomunati alla scena svedese persa tra electro, kraut e balearic di Studio, Air France e jj, Neon Indian al secolo Alan Palomo sembra veramente un caso a parte. Ventunenne texano un po’ spostato di testa, nato e cresciuto a Austin, poi di stanza, com’è giusto che sia, a Brooklyn. Al folgorante esordio su LP dopo il clamore del singolo “Deadbeat Summer”, un inno al fancazzismo estivo degno esemplare di una nuova estetica slacker, altrettanto decadente ma passata dalla (de)generazione-non-(de)(generazione hipster. Venticinque anni dopo “Loser” di Beck, una voce monocorde, ostentatamente alienata e imbevuta di nostalgia per un inno sui generis e senza tempo ai vuoti dell’estate. Per chiarire, nulla a che vedere con Beck, se non nell’anarchia espressiva e nell’essere figlio d’arte, peraltro di un improbabile pop-star messicana di fine anni ‘70.

Tanti videogame, molto Nintendo, troppo Sega (o troppe seghe?) e una passione smisurata per sampler e sintetizzatori. Il tutto condito da un inguaribile istinto lo-fi. Difficile dare un’idea della formula musica di Neon Indian quando in mezz’ora scivolano via senza accorgersi di nulla, dodici istantanee tra stridori digitali, rigurgiti italo-disco, pastiche wave, basi ignoranti molto nippon, ciarpame elettronico. Synth da denuncia, riverberi aberranti, campionature di colonne sonore di videogame che sembrano sputate fuori da musicassette impolverate, direttamente dalla soffitta di chissà quale nerd della ridente periferia statunitense. Un’ipnagogia in dodici atti con intermezzi a metà strada tra jingle pubblicitari dal Sol Levante (il prologo “AM”, “(If I Knew, I’d Tell You”, “Laughing Gas”) e finto-diabetici fotoromanzi virtuali da social network generation (“7000 (reprise)”, “Terminally Chill”).

Il timbro disilluso e trasognato di Palomo rende lo scenario intenso ed avvolgente facendo di “Psychic Chasms” non solo qualcosa di credibile, ma uno dei lavori più interessanti degli ultimi tempi. L’agrodolce “6669” emoziona e fa invidia ai Cut Copy. Il downtempo di “Mind, Drips” è accattivante quanto narcotizzante. Panorami da spiagge deserte in pieno inverno. Viaggi lisergici allegorici. Viaggi lisergici mancati come in “Should Have Taken Acid With You”. Tratto da una sfigatissima storia vera, è un metaforico vuoto sentimentale in due minuti e venti secondi dal nulla verso il nulla. Irresistibile e incredibilmente ficcante quanto in “Local Joke” imprevedibile sintesi tra dream-pop e game-boy.

I motivetti di Neon Indian si piantano in testa in maniera fatale ed è difficile uscirne fuori. Sarà quella voce così ingenua e distaccata, sarà il tripudio di deviati effetti sintetici e la scelta dei suoni così naif, ma sarebbe impossibile immaginare brani quali “Ephemeral Artery” arrangiati diversamente. Una rivisitazione chill-wave di Michael Jackson per essere anni ’80, ma senza quel manierismo tendente al plagio di centinaia di revivalist contemporanei. Tra nichilismo e disincanto, nel metafisico mondo di Alan Palomo i titoli diventano dei manifesti d’intenti, da “Terminally Chill” agli abissi psichici della titletrack passando per ermetici quanto crepuscolari giri di parole, quale “Ephemeral Artery”, che è un’arteria effimera e non femorale, al già citato pomeriggio che LSD avrebbe reso così indimenticabile passando per l’estate fancazzista . Difficilmente lo autodefinirebbe un concept, ma “Psychic Chasms” ne ha tutto lo spessore, in una sorta di ideale sonorizzazione di “House Of Sleep” di Jonathan Coe riambientato a Brooklyn.

Un disco così figlio del passato, da suonare paradossalmente attuale e figlio del suo tempo. Sono pur sempre gli Anni Zero, in fondo. E di un disco così autentico si sentiva troppo il bisogno.

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