FUCK BUTTONS, Tarot Sport (ATP, 2009)

Fanculo i bottoni. Un nome così giovane d’impatto ha anche dei contro. Perché si rischia di spacciare uno dei nomi nuovi più interessanti del momento per un paio di finto-scazzati british o peggio per un gruppo punk. Niente di tutto questo. Se non avete ancora sentito parlare di loro, siete sempre in tempo. L’ottimo LP d’esordio “Street Horrrsing” prodotto da John Cummings dei Mogwai in fondo è uscito solo l’anno scorso e ha meritatamente lanciato Andrew Hung e Benjamin John Power. Il loro originale electro-noise multi-strati tra assordanti distorsioni, ossessive campionature e una vena rumorista sottile pur prevalente trova uno sbocco più uptempo in “Tarot Sport”. Il tribalismo dei Liars di “Drum’s Not Dead” a braccetto con le paranoie industriali dei Black Dice entrano nel magico mondo della techno ricombinando la formula tendente al post-rock del duo di Bristol. Il mix è esaltante. Suite strumentali di otto-dieci minuti, con solo due brani che si mantengono nell’ordine dei cinque minuti, che fanno di “Tarot Sport” un must degli ultimi tempi.

L’incredibile “Surf Solar” d’apertura è l’ideale manifesto d’intenti. Campionatura acida e isterica, cassa dritta e avvolgenti drone che si dispiegano riempiendo gradualmente tutti gli spazi. Un metafisico punto di raccordo tra techno e shoegaze che la pone nell’Olimpo dei brani più significativi dell’anno o forse dell’intero decennio. La componente più dance e ritmata avvicina i Fuck Buttons ai gelidi panorami dream di The Field perfidamente trasfigurati in incubi cupi e claustrofobici. Impossibile uscire vivi da “Space Mountain” o illudersi di un finale a lieto fine in “Olympians” che scivolerebbe giù apparentemente leggera e sospesa sul nulla. I synth kraut di sfondo garantiscono la variazione atmosferica ed emotiva colorando i panorami apparentemente monotematici del duo. I peculiari drone sono paradossalmente il faro melodico dei brani soprattutto nella suite più tranquilla e lineare delle sette, l’eterea “The Lisbon Maru” che nella sua progressione suona tanto come “Sweet Love For Planet Heart” parte 2. Ovvero ciò che decine di post-rockers non sono mai riusciti a scrivere troppo vincolati al canovaccio standard del genere-post più discusso dello scorso decennio. Le proverbiali distorsioni di Power e Hung spadroneggiano nei momenti più coraggiosi e sperimentali che non a caso sono i due brani più brevi. In “Phantom Limb” si accostano agli aridi paesaggi post-industrial del filone Black Dice, HEALTH e Growing sfidando il futuro e l’avanguardia senza perdere la propria identità musicale o forse per merito di ciò. Mentre deflagra senza timidezza il tribalismo latente e strisciante che pervade l’album in “Rough Steez”, alienante ipnosi metropolitana improvvisamente tracciata da riverberi che la proiettano nell’etere.

Chiude nel migliore dei modi “Flight Of The Feathered Serpen”, la risposta agli Underworld in una sorta di “Born Slippy” da 2012 che chiude e apre un decennio con lo stesso appagante nichilismo raver, ma senza quella plastica agli antipodi dell’inquietante mondo di tarocchi per sport dei Fuck Buttons.

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