The Postmarks, credere in una copertina

C’erano tempi in cui i dischi si potevano comprare anche solo per una copertina. Bastava. Ora invece solo un desperado potrebbe pensare di non ascoltarsi qualcosa prima, attraverso i mezzi più o meno leciti che pullulano.
Prendiamo per esempio questa copertina dei Postmarks: old style rovinata come se fosse un disco usato, con un rouge definito che sembra saltato fuori direttamente da un film di Truffaut e lo sguardo assorto di Tim Yehezkely. Da comprare solo per questo.

L’album si intitola “Memoirs at the End of the World” (Unfiltered, 2009) e si scopre poi, dopo che l’occhio ha avuto la sua parte, che anche l’ascolto colpisce: il trio di Miami che si era già fatto notare un paio di anni fa con l’esordio omonimo seduce con un indiepop leggerino alla Camera Obscura che ammicca anche agli arrangiamenti orchestrali Anni Sessanta (con una cover così avevate dubbi?), riportati in auge ultimamente anche dai Last Shadows Puppets. Anzi, uno stile che non è mai passato di moda: avete mai ritenuto la classe di un piacione come Serge Gainsbourg fuori moda?

Da qui alla fine dell’anno stanno per uscire dischi importanti, ci stiamo appuntando tutte le cose “che contano” con precisione certosina, ma a volte è molto più bello buttarsi senza remore in dischi minuti e deliziosi come quest’ultimo dei Postmarks, uno di quegli album che si nascondono nelle pieghe delle frenetiche uscite discografiche al tempo in cui ognuno si fa la sua casa discografica e che si farebbe presto a perdersi.
In fondo, è facile: basta seguire l’istinto e tornare a credere anche solo ad una copertina.

(Paolo Bardelli)