PRODIGY, Invaders must die (Take Me To The Hospital, 2009)

I Prodigy sono ormai una band che vive a cadenza ciclica. Dischi e tour, poi chi si è visto si è visto. Accadeva così sul finire degli anni ’90, dopo aver dato alle stampe l’indimenticato “The Fat Of The Land”, fino al 2002, quando ricomparivano sulle scene per fare da headliner al Carling Weekend. Qualcosa di fondo si muoveva, e infatti due anni dopo usciva il controverso “Always Outnumbered, Never Outgunned”: d’accordo, un disco sostanzialmente del solo Liam Howlett, ma il nome è suo da inizio carriera. Dovevano passare altri quattro anni prima di riabbracciarli, e visti i risultati non si può che esser contenti di aver dovuto aspettare tanto. I Prodigy sono tornati, e sono tornati soprattutto in 3: Keith e Maxim sono al loro posto, si dia inizio alle danze.

“Invaders Must Die” è un discone. Opinione personale, certo, ma è proprio un discone. Un lavoro saturo di produzione in studio che sarebbe sciocco negare, ma che trasuda tutta quell’anima sporca e rumorosa con cui, se l’avete amata in passato, non avrete difficoltà a ricongiungervi. Suona nell’unico modo in cui un disco dei Prodigy potrebbe suonare alla fine di questo decennio che se ne andrà, e lo fa in modo come sempre fuori dalle righe: violento, anarchico, pingue, danzereccio. Lo si capisce dalle primissime battute della title track: bassi che crescono, atmosfera cupa che si gonfia, crescendo secco e detonazione… Il riff principale che sta a metà tra la serietà e quella smaccata cafonaggine che in fondo non disdegnano: ci sono davvero tutti gli ingredienti che ti fan dire sì, questi sono i Prodigy. Prendere o lasciare. Anche “Omen” è costruita su una traccia quantomeno borderline, ma vattela a togliere dalla testa: ritmo irrefrenabile e martellante che si scatena, roba da buttarsi nella corrente senza pensare a dove ti porterà. L’hardcore techno che ben conosciamo si mischia con elementi più vicini alla loro old skool dei primi ’90 (“World’s On Fire” e Warriors Dance” che campiona il cantato di “Take Me Away” dei True Faith, classico house dei tempi che furono, ingozzandola di bassi e tastiere) e vaga in territori più breakbeat (“Piranha”, ma anche lì non fatevi illusioni: picchia senza compromessi). Viene difficile descrivere un album del genere senza corredarlo di aggettivi che non comunichino sregolatezza: è semplicemente esagerato. “Colours” ha il tiro del singolo perfetto, secco e catchy allo stesso tempo come solo loro son capaci di combinarli; “Run With The Wolves” vomita l’aggressività di Maxim in strofe rappate. Chiude il tutto “Stand Up”, un inno dall’incedere simile a un (video)giocattolo: irriverente presa per il culo o autoironia?

Comunque la si voglia vedere, l’80% dei gruppi che si riunisce fa concerti per soldi senza replicare poi in studio. I Prodigy non si sciolgono mai, tacciono per anni e tornano in questo modo. Un disco che (personalmente) resterà e che ritroveremo nelle classifiche di fine anno. Noi invece ci vediamo alla prima occasione buona sotto il palco a dimenare le braccia verso il cielo, no?

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