KAISER CHIEFS, Off With Their Heads (Polydor, 2008)

Strano destino quello degli inglesi Kaiser Chiefs. Il brillante quintetto guidato dal prode Ricky Wilson ottenne un successo impressionate nel 2005 con il primo disco, “Employment” che, già a partire dal bel titolo, aveva tutte le carte in regola per diventare un’opera-manifesto, sulla scia di un predecessore autorevole come “Parklife” (1994) di bluriana memoria, per le irrequiete generazioni metropolitane del terzo millennio. Poi le cose sono andate come spesso capita in questi casi e il gruppo si è messo all’angolo praticamente da solo, pubblicando nel 2007 un album ridondante e magniloquente (di una magniloquenza polverosa e fiacca, oltremodo manierata) come “Yours, Trouly Angry Mob” che, pur ridimensionando in modo significativo le ambizioni compositive della band, ha finito con l’ottenere un successo di vendite comunque notevole in tempi di irriducibile magra come quelli attuali, confermato dagli affollatissimi concerti in giro per l’Europa, ambito in cui la band ha senza dubbio ancora qualcosa di interessante da dire.

Con premesse di tal fatta ci si accosta la nuovo, atteso, album “Off With Their Heads”, cui tra l’altro spetta l’ingrato compito di controbattere le pesanti accuse (in sostanza: i dischi di gruppi come i Kaiser Chiefs non meritano di essere acquistati) lanciate da un Noel Gallagher più linguacciuto del solito. Certo, la battaglia delle vendite non sarà facile da spuntare (i dischi di Oasis e Kaiser sono usciti a distanza di una settimana l’uno dall’altro, ma in mezzo si sono ficcati gli AC/DC, probabili vincitori finali al botteghino, e i redivivi Keane). La vittoria non sarà semplice anche perché l’album in questione non sembra avere le caratteristiche per conquistare l’entusiasmo infervorato di radio e televisioni come accadde tre anni fa. Il gruppo qui ha tutta l’aria di volersi divertire, scherzando con formati diversi, componendo uno slalom spericolato e altamente discontinuo tra stili lontani: “Spanish Metal” onora la propria buffa titolazione, intrecciando spasimi hard rock in odore di Muse con umori spagnoleggianti degni degli Heroes Del Silencio, “Like It To Much” si fa notare per un piglio più cameristico, grazie all’intervento di archi che sottolineano melodie e ritornelli, con un gusto molto classico ma apprezzabile. Altrove affiorano spunti dal tenore vagamente disco-funk/ nu rave (“You Want History”, “Addicted To Drugs”, tra le migliori, e “Good Days, Bad Days” molto Blondie-style) e questo in tutta onestà era un esito abbastanza prevedibile, considerato che a produrre c’è Mark Ronson, tra i manipolatori sonori più richiesti al momento insieme a James Ford (Simian Mobile Disco) e Erol Alkan. Tra l’altro Ronson (che, lo ricordiamo, è tra i produttori di uno dei più importanti dischi pop degli ultimi anni, “Back To Black” della Winehouse) aveva già lavorato con i Kaiser Chiefs, includendo una cover della loro “Oh My God” (da “Employment”) cantata da Lily Allen nel suo album “Version” del 2007. La stessa Lily Allen che qui ritroviamo ai cori della bella “Always Happens Like That” e il cerchio (forse) si chiude.

Detto questo, la cifra essenziale del gruppo la si ritrova come al solito nella sensibilità per la melodia, che rimane notevole, e in un’ortografia di ascendenza tutta britannica (spinta fin quasi all’incesto, ascoltate la conclusiva “Remeber You’re a girl”). Il disco suona abbastanza vario e si lascia ascoltare senza particolari difficoltà, risultando senz’altro migliore del precedente (ma non era poi un’impresa). Tuttavia il gruppo di “Employment” pare definitivamente scomparso: via l’ironia pungente dai contorni vagamente intellettualistici, via la fine vena bozzettistica capace di tratteggiare (sulla scorta dei Pulp) fulminei quadretti di ordinaria mediocrità provinciale, via anche quella spassosa vocazione cabarettistica al vaudeville e alla farsa di costume, in bilico tra Kinks, Madness e Roxy Music. Tolto il rimmel dagli occhi del cantante Ricky Wilson, rimane un gruppo dedito ad un virile glam rock, molto “bolaniano” nelle forme, a tratti anche un po’ macho, con ritornelli da curva hooligana, piacevoli da canticchiare, troppo facili da dimenticare. Peccato.

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