LADYTRON, Velocifero (Nettwek / Self, 2008)

Mettiamola così: i Ladytron finora non hanno fatto la carriera che il singolo “Blue Jeans” (da “Light & Magic” del 2002) aveva fatto ventilare. Quella canzone prometteva troppo, poi è facile non mantenerle, le promesse. Anche “Velocifero” è così: è la legge delle aspettative, più sono alte più è facile dispensare quantomeno una piccola delusione.

Poi l’obiettività prende il sopravvento, e allora bisogna dire che “Velocifero” non fa che confermare i Ladytron come un punto di riferimento per certa black-electro, quell’elettronica che trae linfa dalle tenebre e dall’asfissia sonica, guardando ai Nine Inch Nails come modello di ispirazione lata. Non perché sia uguale il suono, ma perché è uguale la filosofia sonora. E infatti con i N.I.N. i Ladytron hanno fatto un tour e “Velocifero” è anche in parte prodotto da Alessandro Cortini (attuale tastierista bolognese della band di Cleveland). Avete presente quando a forza di stare con una persona si iniziano a pensare le stesse cose?

“Velocifero” inscurisce i territori melodici del gruppo di Liverpool perché si moltiplicano le piste di strumenti che formano una massa compatta come la spessa lamina di ghiaccio invernale dei laghi più a nord, turbinano batterie massicce con rullanti mastodontici, tanto ci sono sempre le canticchiabili armonie vocali di Helen Marnie e Mira Aroyo a riequilibrare il tutto. Che ci volete fare, personalmente si godeva quella certa ariosità e, per certi versi, meno seriosità di “Witching Hour” (che peraltro il nostro Artioli ha ingiustamente massacrato qui su Kalporz, quello sì che è un gran disco!), ora si mette su “Velocifero” e piacciono di certo le varie “Black Cat”, “I’m Not Scared” e “Tomorrow” (davvero bella quest’ultima…) ma si percepisce una vaga macchinosità.

La forza dei Ladytron parrebbe essere invece la semplicità di certe intuizioni azzeccate, dunque perché complicare le cose? Prendiamo il pezzo di chiusura, “Versus”: compositivamente delizioso e grandemente malinconico come una canzone a caso di “Disintegration” dei Cure. Allora perché svisare e infarcire di suonettini che vanno e vengono, e disturbano e basta?

Ma soprattutto: quanto era goduriosa l’apparente semplicità di “Blue Jeans” e di “The Last One Standing”?

P.S., anzi, fa schifo finire una recensione con un “P.S.”… Cambiamo. Ah, ultima cosa: veramente pacchiano l’orrendo collage di copertina.

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