Intervista a The Niro

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Odia essere accostato a Jeff Buckley, anche se – in effetti – è un po’ inevitabile. Ma forse è un problema nostro che vediamo Jeffino dappertutto dato che non c’è più. Ecco la chiacchierata telefonica, tra un’ordinazione al ristorante e l’altra, con uno dei nostri folk-singer più in ascesa ed evoluzione, che per una volta tanto gli stranieri ci invidiano.

Dove ti trovi?

A Napoli, vicino a Piazza Dante, dietro al Rising Mutiny il locale dove abbiamo suonato ieri.

Iniziamo, allora. Il tuo nome qui in Italia ha assunto autorevolezza solo dopo gli attestati di stima ti sono venuti dall’Estero… non poteva che andare così?

Sono d’accordo, è difficile uscire dall’Italia cantando in inglese, quindi se arrivano degli attestati di stima dall’estero può essere una sorta di garanzia. E comunque non mi aspettavo che ci potesse essere così attenzione nei miei confronti anche qui in Italia.

…anche perché non ci sono tantissimi altri artisti italiani paragonabili a te. Mi viene in mente, come approccio ma non come genere, solo Samuel Katarro…

Ah, non l’ho sentito però so che condivideremo il tributo ai Diaframma, siamo nella stessa compilation che uscirà proprio questo mese.

Volendo generalizzare quindi: il cantautore con la chitarra acustica è una situazione da Anni ’60 e ’70 o è comunque moderna?

In realtà per me il cantautore non ha età, partendo proprio dai menestrelli, c’è sempre stata questa figura solitaria che raccontava storie… In realtà a me piace molto suonare chitarra e voce ma anche con la band, perché quando scrivo di solito penso a più strumenti.

E tu infatti hai iniziato con una band…

Sì, si chiamava appunto The Niro dove portavo comunque testi e musiche e le parti di ogni singolo strumento, dunque di fatto ero un cantautore celato dietro una band. Poi il gruppo cambiava elementi in continuazione, e dei fondatori eravamo rimasti in due. L’ultimo rimasto insieme a me mi ha detto: “Secondo me tu sei un cantautore, dovresti vivertela come tale”, ci ho riflettuto su ed eccomi qua.

Anche se è evidente la derivazione delle tue canzoni da stilemi non nazionali, ho sentito ad esempio in “About Love And Indifference” e “When Your Father” degli accenti mediterranei…

Sicuramente, qua la Spagna esce di fuori sempre di più! Nel prossimo disco mi sa che l’Inghilterra verrà messa, non dico in secondo piano, ma gli elementi mediterranei salteranno fuori in maniera più marcata.

Hai intenzione di trasferirti in Spagna, insomma…

Magari, perché no!

Per ora invece quanto è necessaria Roma alla musica di The Niro?

Mah, dato che a Roma ci ho fatto un centinaio di concerti lo dovremmo chiedere anche ai romani se vogliono che continui a suonare lì! (risate) Devo dire che Roma ispira parecchio, viverci è una bella babele, c’è sempre la situazione non proprio cittadina che esce fuori, ti puoi ritrovare in ambienti prettamente romani come in certi frangenti “etnici” che danno modo di estraniarsi.

Ma è vero che ti dà fastidio l’accostamento a Jeff Buckley?

Sì, verissimo. In realtà non è che mi dà fastidio, è che l’ho conosciuto dopo e quindi lo trovo un accostamento un po’ strano, anche se l’uso del farsetto così come certi approcci sofferti ci accomunano. Quando mi dicono: “Mi ricordi Jeff Buckley” ok, figuriamoci, comunque lo considero un grandissimo artista, ma quando mi dicono: “Puoi fare Jeff Buckley” mi incazzo proprio perché non è così. I miei riferimenti spaziano a 360°, come approccio vocale lui era molto più blues, ogni concerto cambiava il pezzo, io cerco fare sempre la canzone allo stesso modo. Non cerco di farmi dire bravo, vorrei che passasse di più la canzone.

Nella tua biografia c’è un elenco lunghissimo di artisti importanti per cui hai aperto i concerti… qualche aneddoto? Qualcosa che ricordi piacevolmente di qualcuno?

Quando abbiamo aperto per Lou Barlow, il chitarrista dei Dinosaur Jr. che veniva a promuovere il suo disco solista, lui era tra il pubblico a vedere la mia apertura. Poi venne da me e mi bombardò di complimenti, e quando gli portai il demo davanti a tutti disse: “Con questo demo potrai farci i soldi!”. Oppure Tom Hingley, leader degli Inspiral Carpets, mi lasciò il suo numero personale dicendomi: “Teniamoci in contatto, adoro quello che fai”. Erano i primi concerti che facevo e mi dissi: “Allora piaccio!”.

Affrontare il pubblico da solo non ti ha mai intimorito?

Beh, l’apertura ai Deep Purple è stata molto forte ma mi ha anche vaccinato, perché dopo aver affrontato ottomila rocker incazzati qualunque cosa fai dopo non ti pesa poi più di tanto! Ad esempio al concerto prima di Amy Whinehouse ero molto più preoccupato per la macchina che aveva fuso il motore poche ore prima che di stare là davanti.

Domanda cazzona: ma è vero che ti tagli i capelli da solo?

Sì, però l’ultimo taglio me l’ha fatto mia madre! Mi ero visto in un’intervista televisiva con i capelli orribili e ho detto basta…

Beh però non hai ancora la hair-stylist personale…

No no, non ci tengo ad averla! Non mi sono pettinato per anni, il capello lo maltratto… L’estetica non la curo tanto, preferisco andare “nature”.

Però le basette sono importanti…

Le basette sì. Le ho accorciate un po’ perché facevano troppo Commissario Basettoni, però le tengo. Magari le tolgo per l’estate… se fa caldo… Poi le rimetto posticcie per le occasioni importanti!

(Paolo Bardelli)