ARCADE FIRE, Neon Bible (Merge, 2007)

Mi si passi la banalità della citazione, ma il secondo album è effettivamente il disco decisivo per testare il valore delle band emergenti. Senza andare troppo indietro – e prendendo tre nomi chiave del revival indie degli anni 60, 70 e 80 che quasi monopolizza la scena attuale – si nota facilmente che tra Strokes, Franz Ferdinand e Interpol, venuti fuori con tre dischi d’esordio ineccepibili, alla seconda prova i primi si sono clamorosamente sgonfiati, i secondi hanno deluso parzialmente le attese e solo gli ultimi di fatto sono riusciti a ripetersi. In parte reinventandosi. Ebbene anche gli Arcade Fire, dopo lo splendido “Funeral”, uno dei pochi album recenti belli dalla prima alla ultima nota, giungono dopo quasi tre anni al momento fatidico, con un EP non immancabile e l’illustre collaborazione con un fan illustre come David Bowie. E anche loro in parte provano a reinventarsi. Per fortuna.

Basta poco per capire che l’atmosfera che si respira è diversa. “Black mirror” ha un incedere sommesso, immersa in un torbido tappeto sonoro claustrofobico quanto i Jesus & Mary Chain, spettrale quanto gli Echo & The Bunnymen. E che fiorisce in un finale tipicamente Arcade Fire, avvolgente e orchestrale come solo loro. Il suono è meno limpido e levigato, le chitarre restano in secondo piano, meno taglienti e presenti. Come dimostra ampiamente la cupa e minimale titletrack.
Tuttavia la stramba orchestrina semifamiliare del Quebec non si allontana dalle proprie peculiarità. Xilofoni, organo, tastiere, synth, fiati, percussioni e soprattutto viola e violino indiscutibili protagonisti. Pur non incidendo nella frequenza degli improvvisi sussulti cari a Butler e soci, le atmosfere sono meno pompose e spigolose. Se si esclude “Black wave/bad vibrations” in cui però un’inconsueta interpretazione di Régine Chassegne, stridula e svampita tra Cindy Lauper e Siouxsie, fa la differenza. Almeno fino all’inserimento di Win Butler (il marito) sospinto dal vertiginoso basso, mai così prevalente, di William Butler (il cognato) che lascia anch’essa spazio, sempre nel finale, a quegli sfoghi emozionali che hanno reso gli Arcade Fire inimitabili. Certo, ascoltando l’irrequieta “Ocean of noise” si avvertono ancora gli spunti dei pionieri della new-wave, meno Talking Heads e più Bowie, quello della fase berlinese, nei crescendo struggenti e rievocativi di “Keep the car running” e “Windowsill”. Cui si aggiunge un pizzico di Joy Division e Cure nella vigorosa e romantica “The well and the lighthouse”, con un timbro certamente più caldo e vivace che rende ormai inconfondibile il sestetto canadese. Ma emerge una curiosa somiglianza che farà storcere il naso a qualcuno, addirittura con Bruce Springsteen. Springsteen aleggia non solo nella trepidante catarsi di “Intervention” che esplode partendo da un singolare accompagnamento tra folk e canto da chiesa, ma soprattutto, anche come andatura della voce, nell’energica “Antichrist television blues”.

Un disco meno folgorante e immediato del precedente, rispetto al quale ha la particolarità (o il merito) di non far suscitare buone sensazioni a un primo sommario ascolto e, soprattutto, la “colpa” di relegare alla fine i due brani migliori. La spumeggiante “No cars go”. Già eseguita dal vivo durante il tour di “Funeral” essendo stata inclusa nell’ultimo EP, non a caso ne ricorda lo stile. Violini premonitori che aprono la strada a una secca batteria in controtempo per un ritmo irresistibile. Le voci dei due coniugi si elevano in un tripudio di coretti e archi tra cali di tensione bruschi quanto le scariche di elettricità che scuotono il brano fino al rallentamento che prelude alla fuga finale.
La straziante “My body is a cage”. Voce sofferta e lontana, accompagnamento scarno tra un organo inquietante e una batteria smorzata e riecheggiante. E’ un brano che barcolla sull’orlo del baratro senza mai scivolare giù. Così implode tra singhiozzanti spasmi sulle rassegnate ultime note di “Neon Bible”.

Insomma, a conti fatti, benché “Funeral” resti il capolavoro della band di Montreal, anche in questo secondo album è difficile resistere al fascino fiabesco e viscerale che offrono le canzoni degli Arcade Fire. Brilleranno forse di una luce meno fulgida e vivida, al neon appunto, ma la loro ammaliante bible sa ancora incantare ed emozionare.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *