DIRTY PRETTY THINGS, Waterloo To Anywhere (Mercury, 2006)

Orfani più o meno tristi dei Libertines, abbiamo subito fortunatamente per poco le lagne dei Babyshambles di Pete Doherty e ora ci tocca fare i conti l’altra metà artistica dell’ex band presunta miracolo.

I Dirty Pretty Things sono quanto di più vicino ci sia allo stile che aveva fatto il successo della band madre: un cocktail a base di Jam, Clash, e tutto quello che già avevamo trovato alla radice di “Up The Brackets”. Neanche l’accenno di una sorpresa all’orizzonte, quindi.
Nonostante questo un minimo di classe si sente sempre: Carl Barat ha la formula dell’orecchiabilità a portata di mano ed una voce ben più ascoltabile del farfugliamento del vecchio compare di ventura. Cosicchè fra l’ottima apertura di “Deadwood” e il singolo “Bang Bang You’re Dead” si possono trovare i numeri per un ascolto, se non memorabile, almeno piacevole e a tratti addirittura coinvolgente. Nessuno qui se lo aspettava, eppure fra intrecci di chitarre che ricordano gli Strokes più semplici e qualche ritmo in levare (“Gentry Cove”, una delle migliori) la prima metà del disco funziona eccome. Niente di che, eppure si lascia ascoltare, si tiene il ritmo col piede e magari si ballonzola sulla sedia.

Peccato però che la fantasia non sia davvero di casa e che il disco (che in tutto dura mezz’ora, quindi..) si concluda con una sequela di inutili riempitivi in una seconda metà ben più scialba del dovuto, al punto che la forma migliore forse sarebbe stata quella di un ep di sei o sette pezzi. Perché in fondo il disco non è mica brutto, sia chiaro. Peccato soltanto che la non-bruttezza non sia un criterio decente per l’acquisto.

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