PATTY HURST SHIFTER, Too Crowded On The Losing End (Blue Rose / IRD, 2006)

Quello che più mi sorprende del rock’n’roll è il suo ciclo vitale. Per ogni volta che è stato dato per spacciato, si è presentato più forte che mai. E per certi è una sorpresa. Prendete questi Patty Hurst Shifter, ad esempio. Non fanno altro che scrivere canzoni da antologia attorno ad un canovaccio tra underground anni ’80-’90 (un luogo non precisato tra i Replacements di “Pleased To Meet Me” e gli Uncle Tupelo di “No Depression”) e quell’epica tipica della canzone rock americana (da Springsteen e Mellencamp fino ad arrivare al Westerberg solista e Ryan Adams). E la loro, nonostante non sia altro che un’antologia, mi piace da impazzire. Entra in testa e non se ne va, nemmeno cacciandola fuori a pedate. L’unico sentimento è quello di cliccare play all’infinito e alzare il volume fino al livello di denuncia, che tanto se non ti hanno denunciato in tutti questi anni, perché dovrebbero farlo proprio adesso che rifili al vicinato le migliori canzoni rock del 2006? Perché quello che al primo ascolto sembra un disco “americano” e nulla più, al secondo diventa qualcosa di interessante, al terzo capisci che c’è qualcosa che non va e al quarto te ne innamori fino a non poterne più fare a meno. E poi gli ascolti diventano cinque, sei, sette, otto, ottantasette e chi cazzo ha più voglia di contarli! Canzoni come “Never Know” e “When You Lie” si assimilano e si amano con tale freschezza che sembra siano patrimonio comune da sempre. Un po’ come tutto il rock americano capace di restare: per quanto possa essere di differenti decenni, mantiene il fil rouge di passione e sentimento capace di oltrepassare il tempo – sia in avanti che in indietro – ed appartenere al patrimonio comune di chi non può fare a meno di cose del genere. We’ll never walk alone. E dammi un’altra birra.

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