SERENA MANEESH, Serena Maneesh (Honeymilk, 2005)

In un’Europa monopolizzata dalla terra d’Albione dovremmo forse seguire i titoloni delle riviste specializzate e convincerci del fatto che gente pessima come Arctic Monkeys, Kaiser Chiefs, Babyshambles, dovrebbero continuare a farci amare il rock. Oppure potremmo guardare al di là del nostro naso e procurarci l’omonimo disco dei Serena Maneesh.

Operazione facile se dotati dell’amabile peer2peer; meno facile se, giustamente, siete feticisti vogliosi di supporti originali. Sì perchè la distribuzione italiana per ora non contempla la presenza di questo disco sugli scaffali dei vostri spacciatori di suoni preferiti. Considerando solamente il secondo caso (perchè i dischi si comprano) non ho alcuna difficoltà nel dire che ci perdiamo qualcosa di grande. Qualcosa che ha la forza di una tormenta elettrica. Qualcosa che coniuga le orge noise dei Sonic Youth con la dolcezza shoegaze dei My Bloody Valentine. Qualcosa che può partire da un lento cullare (“Her Name Is Suicide”) fino a giungere al muro di suono definitivo (“Your Blood In Mine”).

Il quintetto norvegese (anche grazie alla presenza di un guru come Steve Albini) giunge così all’esordio sulla lunga distanza mettendo in piedi la botta sonora definitiva, con capacità tali da far impallidire i grandi nomi più navigati ed acquistare la nostra fiducia per la loro carriera futura. Quindi ecco cosa ci perdiamo: uno dei dischi migliori del 2005. E a volte ti viene davvero da ringraziare internet perché certi piaceri, anche se troppo tardi per inserirli nella propria classifica, è sempre una manna poterli scoprire.

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