KINGSBURY MANX, The Fast Rise And Fall Of The South (Yep Roc / IRD, 2005)

Come il giorno dopo un esame passato all’università. Come un porto calmo al far della sera dove attraccare la propria barca. Questo “The Fast Rise And Fall Of The South” porta in seno un’oasi di beatitudine, un qualcosa che mette, se non di buon umore, almeno in pace con se stessi. E inizialmente non si riusciva a mettere a fuoco quale fosse l’elemento, la scintilla che accendesse queste sensazioni, poi – a poco a poco – si è riconosciuto il rimando: il tocco alla Stone Roses. Il gruppo di Manchester era campione nel riuscire a trasportare l’ascoltatore in quel mondo dove succedono solo belle cose. Ecco, i Kingsbury Manx, anche se dal lato musicale più evidente devono di più al folk psichedelico fine anni Sessanta, alla Byrds tanto per intenderci, hanno un retrogusto tipicamente Stone Roses (“And What Fallout!”, “1000 8”) che fa meritare loro quasi il voto della banana Chiquita. Non è facile infatti essere chiari, leggeri, svolazzanti per urgenza manifesta, è limite più ricorrente che la leggerezza faccia prendere troppo quota nelle atmosfere alte dove l’aria è troppo rarefatta e irrespirabile.

Qui invece si può inalare a pieni polmoni: i corettini fanciulleschi di “Oh no” vanno dalle parti dei The Thrills, “Snow Angel Dance” è imbibita di densa psichedelia californiana che riporta ai tempi in cui gli Hammond erano le uniche tastiere che il rock si permetteva e, in generale, la sfavillante luce degli acidi si irradia in più punti dell’album (si ascoltino le suggestioni sonore del finale di “1000 8”). Come equilibristi nel mezzo dell’oceano che divide la terra anglosassone da quella statunitense, gli americani Kingsbury Manx (sono di Chicago) guardano un po’ qua e un po’ là, sia – come si è già detto – ai gruppi californiani ma anche ai Pink Floyd periodo “lato oscuro della luna” (“Greenland”) e agli An Emotional Fish (“Nova” assomiglia in modo prepotente a “Star” degli irlandesi). Passando allegramente, tra l’altro, da un decennio all’altro senza tentennamenti di sorta.

Merito forse anche della mano del produttore Mikael Jorgensen, già mentore dei Wilco, che in “The Fast Rise…” è riuscito a ricreare quell’atmosfera ovattata tipica di Jeff Tweedy e compari. Ma merito anche alle canzoni, che portano questo quinto album dei Kingsbury Manx ad essere una piacevole uscita dell’anno.

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