SLEATER KINNEY, The Woods (Sub Pop / Audioglobe, 2005)

Il modo più cretino di parlare di “The woods”, settimo album delle Sleater-Kinney in dieci anni, è di sottolineare che, dietro a quello sferragliare violento, ci sono tre donne; eppure, sottolinearlo è indispensabile. Psicanalisti d’accatto vi diranno che la chitarra è un simbolo fallico, che il rock è associato al maschile e che l’assolo è, in sostanza, un momento autoerotico e che, anche per questi motivi, nessuna donna può suonare perfettamente rock, neppure volendo.

Bene. Ora, voi zittite questi idioti, e ascoltate. Se arriverete alla fine (e non è detto, perché “The woods” non si affronta a cuor leggero, ti sfida e si impone), vedrete che queste tre donne sono le prime ad essere entrate nei luoghi sacri del rock al maschile, quell’hard-rock stracolmo di fuzz, di ricordi blues e di psichedelia heavy che apparteneva a Led Zeppelin, Blue Cheer, Jimi Hendrix, e lo hanno fatto consapevoli della loro tecnica non eccezionale. “Forse gli uomini hanno monopolizzato gli assoli?”, si chiedeva Janet Weiss in un’intervista; beh, lo avevano fatto finora.

Se “The woods” sia o meno una pietra angolare del rock, questo lo dirà il tempo; certamente è un disco importante e bellissimo ma, va ripetuto, per niente semplice: il primo scoglio da superare si chiama “The fox”, dove il produttore-mago Dave Fridmann satura le chitarre fino al punto di rottura, e la voce strilla di gola un testo zeppo di metafore con un’energia devastante. Tocca a “Wilderness” rilassare le orecchie, ma il suo ritmo saltellante si fa ancora più fisico, concede meno spazio alle armonie vocali che erano il marchio di fabbrica delle S-K; l’improvvisazione regna sovrana, e il caos – per quanto controllato – può divampare anche in mezzo a una canzone quasi calma come “What’s mine is yours”, sotto forma di un assolo hendrixiano. Se si cercano tracce di pop, lo si troverà nell’altalena triste e isterica di “Jumpers”, o in quella “Modern girl” troppo ironica per non ricordare la feroce parodia delle “typical girls” allestita molti anni fa dalle Slits. Il piglio è durissimo eppure variegato: per quanto è lineare “Rollercoaster”, così sono imprevedibili l’accelerazione finale di “Steep air”, o il nucleo improvvisativi da cui emergono gli undici minuti di “Let’s call it love” (il modo in cui Corin Tucker canta il titolo è una citazione evidente di “Whole lotta love” degli Zeppelin) o le meditazioni confuse di “Night light”.

Revival, copie sbiadite, ribellione di maniera… non c’è nulla di tutto questo, qui, perchè “The woods” ridona al rock la sua pericolosità. “Non siamo qui per intrattenere”, canta il trio nella favolosa “Entertain”, ma è impossibile non rimanere stregati da tutta questa energia. Un disco di grande forza, e maledettamente importante.

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