THE DECEMBERISTS, Picaresque (Kill Rock Stars, 2005)

E così anche per l’allegra brigata capitanata da Colin Meloy è arrivato il tempo di dare alle stampe il terzo lavoro e di consacrare i propri sforzi all’altare – ultimamente oltremodo adornato e riverito – del pop. Rispetto ai precedenti “Castaways and Cutouts” e “Her Majesty the Decemberists” (senza contare l’EP “Five Songs”, il progetto di narrativa sperimentale in quattro capitoli “The Tain” e il CD singolo “Billy Liar”) la componente pop si fa dunque più preponderante, pur senza che questo faccia venir meno lo spirito più bizzarro (e interessante, aggiungo io) del progetto musicale, quell’atmosfera da sgangherata banda di paese, folk bislacco e saltellante, acustica in procinto di diventare farsa o – più probabilmente – illogica rilettura del reale.

Le rime di Meloy sono come sempre argute e l’aspetto narrativo che ne contraddistingue l’essenza mantiene la sua aura seducente. Ciò che sembra non sempre perfettamente calibrato è proprio l’apparato melodico, purtroppo: la trascinante “The Infanta” posta saggiamente in apertura di disco non può che far abituare male il suo uditorio, visto che spesso e volentieri l’ispirazione sembrerà calare di molti punti. “We Both Go Down Together” non è altro che una “Losing My Religion” pacchiana e mai particolarmente in grado di catturare l’ascolto, e in generale il rischio di scambiare le composizioni dei Decemberists per riletture poco originali delle cavalcate di Michael Stipe e soci, ma ancor più delle atmosfere delicate dei Belle and Sebastian è veramente forte. Eppure è facile rendersi conto di come la materia abbia solo bisogno di una spintarella per spiccare definitivamente il volo e librarsi in piena libertà in aria, e dispiace vedere la band costretta a ritorcersi su sé e sul paesaggio di contorno.

Mancano probabilmente ancora le sicurezze per portare in porto il progetto: se da un lato infatti si calca la mano sull’aspetto maggiormente lirico del pop e sulla sua ariosità coinvolgente è altrove che la band mostra la sua reale forza: nel melodrammatico inserto da camera “(From My Own True Love) Lost at Sea” nel quale il calore invernale dei Black Heart Procession si sposa con la dolenza programmatica di un Marc Almond, così come nel Morrissey spastico proposto in “The Sporting Life”, e soprattutto in “The Mariner’s Revenge Song” aperta da una fisarmonica derivata direttamente da Brecht/Weill e costretta poi in una marcia bandistica deforme e incessante che paga solamente la durata spropositata. L’elefantiasi dei brani è effettivamente un altro punto a sfavore dell’album, anche perché la lunghezza non trova alcuna giustificazione all’interno del discorso intrapreso da Maloy e soci (il discorso vale anche per “The Bagman’s Gambit” e, in parte, per “On the Bus Mall”).

In definitiva un lavoro decisamente interlocutorio, probabilmente di passaggio. Il timore è che in futuro la componente surreale che rendeva fascinosi i precedenti lavori finirà per essere sempre più livellata a favore di una maggiore accessibilità e immediatezza. Sarebbe un vero peccato.

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