ONEIDA, The Wedding (Jagjugawar, 2005)

Recensendo l’EP “Nice. Splittin’ Peaches” uscito l’anno scorso per la Ace Fu avevo supposto come l’utilizzo di elementi acustici e l’esplosione melodica dei brani fossero elementi da prendere seriamente in considerazione nell’immaginare la possibile track list di “The Wedding”. Bè, oggi mi trovo a dover rivendicare fortemente tale affermazione.

Il matrimonio accennato nel titolo non avrà magari l’avventurosità maliziosa di “Each One Teach One” e “Anthem of the Moon” ma porta con sé una completezza e una varietà che devono per l’ennesima volta (non che la cosa si stia facendo seccante, tutt’altro) far togliere il cappello dalla testa. Ma prima di addentrarci nello specifico dell’album converrà sgombrare il campo dalle varie inesattezze captate dai media a ridosso dell’uscita di “The Wedding”: innanzitutto il suono della band non è assolutamente rivoluzionato, e non è vero che quelli ascoltati qui dentro non sembrano gli Oneida. Anzi, è vero tutto il contrario! Proprio in un lavoro come questo, arricchito da archi e altri strumenti acustici, è possibile notare con ancora maggior vigore l’identità profonda del suono costruito nel corso degli anni da questo terzetto ex quartetto. Come secondo punto, è una menzogna bella e buona quella che descrive l’ultimo lavoro licenziato dalla band come “l’unico facile da ascoltare”; è vero, la direttrice pop acquista parecchi punti, ma questo non equivale a ipotizzare una svendita del sound. Una tale affermazione può essere presa per buona solo se chi l’ha pensata proviene solo ed esclusivamente dall’ascolto del primo cd di “Each One Teach One”. Basterebbe infatti conoscere “Come On Everybody Let’s Rock” per rendersi conto di come nulla che sia presente qui dentro sia stato frutto del caso o abbia alle spalle un preciso disegno di marketing industriale.

Risolte queste possibili perplessità la prima cosa che viene naturale rimarcare è il tris di brani che apre la kermesse: “The Eiger”, “Lavender” e “Spirits” rappresentano nella loro sequenza, nella loro morte e rinascita qualcosa di molto vicino alla perfezione. “The Eiger” è una strepitosa danza per archi, resa ariosa dal cantato, con quell’intrecciarsi sognante di voci, eppure sempre vagamente ansiogena, esempio perfetto dell’identità sonora a cui facevo riferimento in precedenza: pur con una veste decisamente pop – e che pop!!! – il brano si dipana sfruttando comunque la reiterazione che da sempre è uno dei marchi di fabbrica della band, e che in questo caso sembrano condurre a un matrimonio (sempre per restare in tema) l’utopia vocale dei Beach Boys e gli esperimenti di LaMonte Young. “Lavender”, aperta dall’ecclesiastico vibrare di un organo, è in realtà una marcia spezzata e incessante in cui gli strumenti si compenetrano fino a raffigurare una vera e propria fuga psicogena, in cui la voce irrompe disegnando scenari improbabili. “Spirits” chiude il trittico d’apertura movendosi in territori meno geometrici, in cui l’amore per la lisergia e per gli anni ’70 da sempre parte integrante del DNA degli Oneida prende saldamente le redini.

Ok, basterebbero queste tre gemme per salvare dalla mediocrità e innalzare agli onori della cronaca qualsiasi album, ma qui il resto dei brani si assesta sempre su livelli di eccellenza, a volte arrivando seriamente a sorprendere. Come nella pace acustica di “Run Through My Hair” in cui gli Oneida si travestono da Inti Illimani e conducono l’ascoltatore in un regno fatato, di tanto in tanto squarciato da una chitarra acidula. Altri episodi, come “High Life”, aderiscono maggiormente all’idea consolidata che è stato possibile farsi nel corso degli anni, pur mantenendo quell’aura misteriosa e al perfetto incrocio tra pace e ansia che sembra realmente il marchio distintivo di “The Wedding”. Che giocano anche a rincorrere la propria memoria musicale, come nello scimmiottamento divertentissimo dell’Hard Rock racchiuso in “Did I Die” o nella New Wave dissonante e funerea di “Heavenly Choir”. Per poi continuare a regalare perle: “Charlemagne” è un’elegia pop per tastiere giocata sull’accumulo continuo di suoni, “The Beginning Is Nigh” è la “solita” canzone degli Oneida destinata a dipanarsi e a reiterarsi, “August Morning Haze” chiude l’album con la canzone più puramente post-rock composta dalla band dai tempi di “Whitey Fortress”, ma con una differenza sostanziale. Il brano che apriva “Enemy Hogs” era stanco e sbiadito, questo è vitale e ispirato.

Chi si immaginava la pedissequa ripetizione di quanto già proposto in precedenza ha qui, eternamente, la prova della propria mancanza di lungimiranza. Poco importa in fin dei conti quale sia il matrimonio al quale alludono Hanoi Jane, Kid Millions e Bobby Matador, ma una cosa è certa: dopo l’ascolto di questo album pretenderemo tutti di essere tra gli invitati.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *