ENON, Hocus-Pocus (Touch & Go, 2003)

Uno degli aspetti più affascinanti della scena indie-rock statunitense degli ultimi anni risiede nella possibilità, a chi è avvezzo con il genere, di tracciare una linea regolare, continua e senza sbalzi che leghi le varie bands.

Gli Enon di John Schmersal ne sono un esempio: John fondò gli Enon alla fine della splendida avventura con i Brainiac – band tra le più seminali degli anni ’90 -, terminata tragicamente nel 1999. Dopo un esordio quasi solista contattò Toko Yasuda che gravitava all’epoca nell’orbita dei Blonde Redhead di Kazu Makino e dei gemelli Pace e il batterista Matt Schultz, membro dei Let’s Crash.

Ad un anno di distanza da “High Society” il trio torna sulla scena presentando questo “Hocus-Pocus”. L’attacco di “Shave” trascina l’ascoltatore in un’atmosfera soffusa, dove gli strumenti vivono in stasi frequenti, accompagnando il dolce cantato e tracciando trame delicate, scandite dai battiti scarni assestatida Schultz e dai riverberi di chitarra e tastiere. Più ritmato l’incedere di “The Power of Yawning”, che unisce all’urgenza indie uno spiccato gusto pop che esplode interamente nel crescendo centrale. Riffs anni ’70 pronti a dissolversi in nevrotiche plettrate contemporanee: un connubio decisamente affascinante e trascinante.

I brani si susseguono riuscendo quasi ad evitare la soluzione di continuità. Il mood dell’album è abbastanza evidente, tra fraseggi chitarristici che riportano alla mente i Blonde Redhead – e anche il cantato non è esente da filiazioni dirette – e coordinate punk che si riappropriano della memoria di band storiche come i Sonic Youth. Particolarmente apprezzabile la struttura di “Storm the Gates”, a metà tra i Brainiac e il pop dei sixties, originale la deframmentazione sonora di “Daughter in the House of Fools” e spiazzante la viola suonata da Dylan Willemsa che costruisce (coadiuvato dai chimes di sottofondo) l’orientaleggiante andamento di “Mikazuki”.

A volte il gioco tra pop e rock si fa troppo smaccato e l’originalità dei brani ne subisce l’evidenza, come in “Candy” o nella banale “UTZ”, ma fortunatamente a bilanciare il tutto arrivano la danza conturbante e robotica di “Monsoon” e la scatenante furia di “Litter in the Glitter”. Chiude l’album la bella mestizia folk della title-track, delicato sussurro acustico pronto a trasformarsi in divertita follia psichedelica prima di ritornare al principio.

Un lavoro, pur imperfetto, che mostra ottimi spunti – soprattutto negli episodi più urticanti – e palesa ulteriormente, se ce ne fosse stato bisogno, l’imponenza della scena indipendente newyorchese, dalle innumerevoli sfaccettature. Rimane la difficoltà ad uscire indenni dalla “trappola” del pop, l’arte più difficile da eseguire senza banalizzarla. Ma questo è un problema diffuso.

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