BREAKFAST, Ordinary Heroes (Mescal / Sony, 2004)

Se un album andasse giudicato solo dalla cartella stampa, questo “Ordinary heroes”, seconda prova del duo italo-australiano Breakfast, andrebbe preso e lanciato dalla finestra. Ve ne trascrivo un pezzetto: “L’eroe, quello vero, non si riconosce negli stili di vita che troppo spesso i media esaltano. L’eroe è l’uomo semplice, l’uomo qualunque, ordinario rispetto al lirismo e alla società dello spettacolo che ci circonda. […] Il vero alternativo, il vero eroe è un ordinary hero.”

Se, come cantava qualcuno qualche tempo fa, “Se c’è qualcosa che è immorale, è la banalità”, qui siamo abbondantemente oltre la soglia del consentito; per fortuna, però, un disco si giudica ascoltandolo, e non leggendone. Anche all’ascolto, però, questo “Ordinary heroes” non riserva alcuna sorpresa, e le note positive sono poche: le atmosfere sono smaccatamente sixties fin dalla azzeccata grafica di copertina, e buona parte del disco suona come un pesante calco dei Beatles, o, peggio ancora, di chi ha ottenuto fortune immense imitandoli, vale a dire gli Oasis o altri insignificanti fenomeni brit-pop. Sia chiaro, non c’è niente di male ad ispirarsi agli anni ’60, ma il problema è che qui tutto sembra ricalcato e privo di spunti davvero personali, quasi forzato nelle sue accelerazioni elettriche (“The answer”) o nella ricerca di melodie orecchiabili ma poco incisive (“Carry on”, uscito anche come singolo, con l’aggiunta di due tracce inedite e del relativo videoclip), o ancora nel richiamo esplicito ad altre band (l’eco dei Supergrass in “What if…”).

Le cose migliori si sentono nella parte centrale, quando l’indole psichedelica del duo – e la passione per Syd Barrett – viene maggiormente a galla: non male l’incipit di “Let me be” (rovinata subito dopo dal chorus lamentoso), molto meglio “Out of mind”, guidata da una chitarra quieta e scompigliata nella linea melodica dal Fender Rhodes, e soprattutto “Chocolate for the prize”, vortice psichedelico, scontro tra i Beatles di nuovo fuggiti in India e i Chemical Brothers di “Let forever be”.

Nel complesso, poco meno di quaranta minuti che scorrono via senza lasciare tracce evidenti: un disco innocuo, insomma. In giro ci sono cose più interessanti.

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