Intervista ai DRM

La data del “Live in Kalporz!” ci dà l’occasione di parlare con i DRM, autori esordienti di un disco che getta ponti tra l’elettronica mitteleuropea e la canzone d’autore italiana. Un disco sorprendente e acclamato, e i loro autori sono ben consapevoli e fieri di ciò che hanno realizzato. (dove non è specificato, le risposte sono di Federico, cantante e chitarrista del trio)

Come sono nati i DRM, come nasce il nome?
DRM nasca da Dura Madre, che era il nome che avevano in origine i due terzi del gruppo; dopodiché i Dura Madre si sono sciolti e con l’ingresso del restante terzo (Marzio) siamo diventati DRM; da lì il progetto, che inizialmente era molto acustico, in quanto c’erano chitarra, basso, batteria e voce, si è spostato verso una cosa molto più elettronica.
Il progetto DRM è nato un anno e mezzo prima che uscisse il disco, è nato con il proposito di fare il disco.

Ho ripescato proprio oggi su un vecchio cd, la compilation “Sonica 2000”, un pezzo dei Dura Madre (loro se la ridono di gusto, ndi) che si chiamava “Ad occhi chiusi mi fermo”. Si nota anche una certa differenza nel tuo modo di cantare; sembra che tu abbia lavorato molto sulla voce, sul fatto di usare un registro molto alto.
Quella canzone lì aveva una certa validità, però siamo ad altri livelli, ora. Quello era un livello di un gruppo che deve ancora fare un disco, che per me era notevole, perché comunque i dati di fatto l’hanno detto, ma che era ancora debitore di influenze ben chiare, mentre ora abbiamo più che altro lavorato sul definire la nostra identità. Quindi anche tutto il discorso sullo studio di se stessi, su cosa può dare una voce è andato molto più in profondo, quindi il lavoro c’è stato, e ci sono stati anche due anni di vita. Penso che l’età, insomma, faccia…

Una curiosità sul titolo: come mai “Haiku”? Come mai questo tipo di poesia giapponese?
Perché era una passione letteraria (anche se di solito le passioni sono su diversi campi hanno le stesse caratteristiche, nel senso: se ascolti un certo genere di musica leggi un certo tipo di letteratura…), e quindi haiku era una parola che simboleggiava un certo modo di fare una sintesi.
L’haiku è una poesia sintetica, fatta di pochi versi, che però rende tutta l’impressione da cui è partita in una forma poetica. Io penso che “Haiku” come disco sia un disco che fa della sintesi, dell’estrema stilizzazione della canzone la sua caratteristica, che però riesca, nonostante ci sia una canzone ridotta all’osso, a evocare l’impressione da cui è nata in maniera soddisfacente. Credo che più sintetico è il messaggio e più ti lascia, a te come ascoltatore, la possibilità di elaborarlo ed esserne protagonista, anziché avere un ruolo passivo nell’ascolto.

Anche il testo della canzone “Haiku” dice “sono onesto, a me basta questo”…
C’è tutto un rincorrersi di significati intorno all’haiku, perché è il titolo del disco, ma poi se apri la copertina c’è un haiku poetico, e poi haiku è anche una canzone del disco, non solo è il titolo del disco. Nella canzone “Haiku” c’è un haiku, che però non è lo stesso, ma un haiku più terreno, forse ironico, ma non per questo meno serio, anzi, forse è il più serio di tutti. E’ un ricco insieme di significati del quale eravamo coscienti, e abbiamo voluto farlo così a sottolineare la validità della parola haiku in quanto rappresentante di questo progetto, del primo disco. Penso che lo rappresenti bene.

Avete avuto riscontri molto positivi praticamente dappertutto. Quali sono state le vostre reazioni?
(ridono) Secondo me le merita il disco queste attenzioni, sinceramente. Lo merita non perché sia un capolavoro, ma perché contestualizzandolo nella musica italiana e in quella europea ha un suo valore grosso, forse di apertura, forse è l’inizio di qualcosa. Forse il futuro non è nostro, non voglio dire questo, però può essere l’inizio anche per qualcos’altro.
Secondo me erano giusti e non siamo stati sorpresi, però lusingati, tanto. Quando uno fa una critica che dimostra che il disco è stato capito, che è stato capito dove volevamo arrivare, è come quando ascolti un disco che rappresenta il tuo modo di sentire: ti lusinga molto.

Come sono nate le vostre collaborazioni, e cosa vi hanno lasciato?
Forse è la prima volta che lo dico, ma invece di pensare a come sono nate forse si può dire che sono l’inizio di un certo modo di interagire con altri musicisti. Senza andare troppo nel futuro, che comunque noi stiamo già programmando, penso che sia un modo di fare innovativo, quanto meno per l’Italia. Si è sempre vista la collaborazione come uno sfruttare la bravura di artisti affermati per portare avanti un certo discorso, qui invece secondo me c’è un grosso equilibrio tra la proposta che noi abbiamo fatto all’artista e la validità della sua collaborazione con noi.
La collaborazione deve essere vista come evento normale nella musica, come forma di lavoro che non ti snatura. Se hai una forte identità, non devi temere che grandi artisti come To Rococo Rot o Retina.it snaturino la tua proposta: se hai una tua identità viene fuori comunque, anzi può soltanto essere arricchita.
Con i Retina.it la canzone era già pronta, il loro è stato propriamente un remix. Ci piaceva l’idea che facessero il loro lavoro caratteristico, quello di “Volcano wave”, su una base che non gli apparteneva molto, perché oltretutto era molto chitarrosa all’inizio.
Con i To Rococo Rot è nato tutto da Marzio, nel senso che lui all’inizio del disco, mettendo “Kölner Brett” nel lettore, ci ha detto: “Ragazzi, noi dobbiamo suonare esattamente così”.

Marzio: In realtà ho detto “Secondo me questo è un disco che dobbiamo prendere come esempio in assoluto”. Loro non l’avevano mai sentito…diciamo che ho fatto poco!

Tecnicamente è nata da una mia abitudine che è quella di trovare linee vocali su pezzi strumentali che non sono nemmeno nostri. Quasi sempre rimane la parte vocale, sulla quale poi costruiamo dei pezzi nostri.

Marzio: In quel caso avevo ascoltato questa canzone loro, e l’idea all’inizio era quella di rifare il pezzo. Poi però ci siamo detti: E’ perfetta…ma perché dobbiamo rifare una cosa perfetta?” Li abbiamo contattati, e il risultato è quello che si sente.

Tra l’altro in quella canzone (“Generazione chimica”, ndI) c’è un pezzo del testo che dice “gioventù sonica”, e non te lo aspetteresti… bene o male, i Sonic Youth e l’elettronica sono cose quasi opposte…
Permettimi di dire che non è vero. Materialisticamente è vero, nel senso che abbiamo usato strumenti diversi, però la maniera di comunicare è quella, su questo io non ho dubbi. Sono convinto che nel 2000 essere sonici non è essere come i Sonic Youth, nel senso che quella era la partenza della sonicità. Ora va trovato un modo di essere sonici, di portare avanti un discorso che è stato fondato egregiamente, ma ora va trovato un modo diverso, un modo più attuale; bisogna trovare linguaggi più adatti ai giorni d’oggi.

Marzio: penso che Federico volesse anche sottolineare l’appartenenza culturale a certe sonorità, a un certo tipo di cultura giovanile.

Non ti sto dicendo che siamo un gruppo noise, ti sto dicendo che noi in maniera evidente rappresentiamo con strumenti diversi qualcosa che abbiamo appreso dal passato.

Alessio: Ma poi quella canzone fa riferimento a una generazione attuale, che comunque è figlia di quella gioventù. Astraiti dai DRM, non guardare i DRM come figli di gioventù sonica, ma questa gioventù figlia di gioventù sonica è una generazione chimica, prende le droghe.

Droghe, droghe sintetiche.

Marzio: Coi Sonic Youth ti facevi le canne, ora magari ti impasticchi un po’…

Tanti mi hanno detto che dal titolo questa canzone poteva sembrare attuale, molto da MTV. Sì, è vero, però vai a vedere il contenuto! Se la nostra generazione è stata definita chimica (non la invento io, l’ha detto MTV, quindi vuol dire che è vero), ora però te la spiego meglio, meno in maniera pubblicitaria. Generazione chimica, ok, ma ti dico da dove siamo arrivati. Tanti si sono stupiti di questo riferimento, ma mi sembra così evidente…l’affermazione del proprio essere nasce anche dall’affermazione del proprio passato.
La vedo molto coerente come affermazione.

Alessio: essere sonici non vuol dire essere dissonanti come i Sonic Youth, è un’onda sonora…anche i Muse sono sonici, è una cosa che va aldilà della dissonanza, è un muro di suono…

E’ una intensità emotiva che ti dà il suono…oltre una certa soglia sei sonico, secondo me. Per me il nostro disco è “mediamente sonico”.

Molto particolare è l’artwork. Che idea c’è dietro?
Marzio: L’idea è di fare la cosa più semplice e pura possibile, in linea con quelle che erano le intenzioni del disco. Me la sono immaginata, l’ho raccontata a loro e hanno capito quello che volevo dire. E’ un haiku anche quello: dietro c’è la voglia di comunicare che per dire tanto non bisogna sempre mettere in fila un miliardo di parole. Con le cose più piccole puoi riuscire a catturare l’attenzione della gente. L’unico elemento che voleva mettere un po’ di disordine, un punto interrogativo, è il foro che c’è in copertina, e ognuno può leggerla come gli pare.

Ultima domanda: progetti nuovi, a parte i concerti nei club che farete adesso?
E’ ancora presto per parlarne. Ci sono progetti nuovi, che non significa un secondo disco, ma progetti intermedi. Vorremmo arrivare al secondo disco con una visibilità abbastanza chiara all’estero. Arrivare al secondo disco e avere la sensazione abbastanza chiara che all’estero sappiano chi siamo.