LA FAMIGLIA ROSSI, Discorsi da bar (Dischi luce, 2003)

“Discorsi da bar su Saddam Hussein/per fortuna che questi non son soci miei”; l’attacco della voce ospitata di Carla Bonalume in questo lavoro della Famiglia Rossi non lascia dubbi sulle intenzioni di base del gruppo.

Ancor meno dubbi può lasciare la seguente “Mi sono fatto da solo (una storia italiana”, divertente biografia immaginaria (???) di quell’uomo che al giorno d’oggi è Presidente del Consiglio. Musicalmente il pezzo è una sorta di ballata folk con riflessi di canzonette propagandistiche anni ’20 e fiati di sottofondo – che fanno molto (troppo) musica italiana di questo nuovo millennio -. E le perplessità all’ascolto sorgono proprio – e questo è grave – allo studio della struttura musicale: ovvietà percussive, nessuna evoluzione degli strumenti (la tromba di Graziano non sorprende mai e dopo due pezzi sai già a che punto irromperà e con quale funzione), fastidioso gusto del già sentito.

Se i brani sopraccitati hanno quantomeno il pregio della levità, dell’arguzia e dell’ironia, si rischia il disastro quando ci si scontra con pezzi poveri anche da un punto di vista “verbale”, come ad esempio “Ti ho capito”, che è quanto di più deteriore si possa pensare di ascoltare, banalissimo pop che non sfigurerebbe in una compilation commerciale, misero di idee e contenuti. Più riuscita “Balabiòtt”, che però non ha nulla di diverso da una canzone della Bandabardò, e che usa il dialetto come i Modena City Ramblers.

Sinceramente ci si chiede quale sia il motivo di interesse che possa spingere a comprare (o ad ascoltare) l’album di un gruppo che nel 2003 non fa altro che rinforzare discorsi fatti prima e decisamente meglio: resta la cover della storica “Su Cantiam” di Dario Fo, lei sì ritratto riuscito di un’Italia e lei sì carica di un’ironia sottile, e la ripresa di “Per la moto non si da” scritta sempre dal premio nobel per la letteratura insieme a Jannacci.

In “E’ morto Pinochet” si trovano intuizioni non disprezzabili, ma resta l’atmosfera di incompiuto, scollegato, con la parte arabeggiante che non si riesce a sposare perfettamente con il folk della strofa e il ritornello ballabile. E’ anche il pezzo dove si può meglio giustificare la dedica scritta a Joe Strummer, per chi scrive l’emozione più forte dell’album: divertente tra l’altro come ci sia (volutamente?) un altro riferimento all’iconografia punk, nel cognome Rossi che accompagna tutti i componenti della band come nei Ramones. Riferimenti che si fermano purtroppo lì: il modello di “Lasciarsi andare” è Luciano Ligabue, l’atmosfera celtica di “Resistenza!” è solo una cornice ripresa dai soliti Modena City Ramblers.

Il r’n’r gentile di “Habana Club” rimane come uno dei momenti migliori dell’album, insieme all’ouverture per tromba funebre di “Quanto ho bevuto stasera”, costretta a perdersi purtroppo nel resto della canzone. Insomma, un lavoro incongruo, banale e, il che è ancora più grave, profondamente noioso: si sorride e ci si complimenta per le idee umane, ma non si può assolutamente soprassedere sulle notevoli mancanze di questo “Discorsi da bar”. Anche perché il titolo, ghignante e ironico, rischia di diventare arma da usare nei loro confronti: la loro poetica è poi così superiore ai discorsi da bar? Ai posteri ecc. ecc.

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