SUPERGRASS, Life On Other Planets (EMI, 2002)

Molti non si saranno nemmeno accorti della loro assenza, e tanti di più non sapranno nemmeno chi sono. Eppure la nuova ondata rock di grupponi e gruppetti neo brit-pop dal destino ancora incerto, un piccolo “grazie” lo devono spendere per i Supergrass, che con il loro rock spensierato ma non stupido, melodico ma non banale, sono arrivati a festeggiare dieci anni di onorata carriera, ai margini dello show business. A celebrare questa importante tappa ci pensa “Life on Other Planets”, un disco semplicemente bello, come se ne vorrebbero ascoltare tutti i giorni.

A tre anni dall’ultimo “Supergrass”, disco che sembrava presagire il passaggio definitivo dal brit-pop ad un rock più teso e “riflessivo”, Gaz Coombes e soci, con una sonora inversione di marcia, riabbracciano parzialmente le sonorità e i tempi di “I Should Coco” e di “In It For the Money”.

Il primo brano, “Za”, già suggerisce cosa ci si deve aspettare. Dopo una brevissima intro di organetto, così infantile e per questo così dolce e onirica, ritroviamo i Supergrass che avevamo lasciato quasi dieci anni fa: un “honky tonk piano” martellante che scandisce il tempo di un brano vivace ed esaltante, su cui si snoda l’antimusicale e ironica voce di Gaz, che qui sembra fare il verso a Marc Bolan.

I Supergrass possiedono anche la preziosissima dote di spiazzare chi li ascolta: nessuna canzone assomiglia a quella precedente, ogni episodio è una storia a sé, pur mantenendo intatto quel tocco speciale. E così si passa dall’irresistibile rockettino ye ye di “Seen The Light” al quasi-ska di “Brecon Beacons”.

Ma eccoci al primo singolo tratto dall’album: traccia numero 9, come nel disco precedente, e anche l’atmosfera ci si avvicina parecchio. “Grace” è un breve e meraviglioso rock and roll in cui alla chitarra sembra esserci Mick Ronson e in cui pare di sentire tutta l’irriverenza del David Bowie di “Hunky Dory”.

Ma “Life on Other Planets” è ancora in grado di riservare gradevoli sorprese. Negli ultimi due brani i Supergrass depongono le loro sguaiate chitarre e si affidano a suggestive tastiere e sintetizzatori (e qui la mano del produttore Tony Hoffer, già con Air e Beck, si sente, eccome). L’atmosfera si fa irrimediabilmente più cupa. Dopo l’intensa e crepuscolare “Prophet 15”, arriva “Run”. Le prime strofe del brano sono sorrette da un dolcissimo impasto vocale. La quiete e la serenità dei cori fanno da preludio ad una lunga coda strumentale affidata al suono lancinante di un synth che come una lama taglia un giro armonico ipnotico che continua a salire, perdendosi in vortici sonori quasi dolorosi; il tutto per arrivare a spegnersi gradualmente, e lasciare posto solo a quell’organetto d’infanzia che all’inizio aveva aperto questo curioso viaggio. Bello, da rimanere ammutoliti.

Forse molti non ne avranno sentito la mancanza, ma per chi ha amato la fantasia, l’ironia, e l’autentico talento di questo gruppo, un disco come “Life on Other Planets” è un potente antidoto contro la noia sonora.

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