PEARL JAM, Riot Act (Epic/Sony, 2002)

Credo che al giorno d’oggi sia faticoso essere ottimisti. Non so come la vediate voi, ma io la mattina apro il giornale e mi deprimo: ci sono un sacco di cose che vanno per il verso sbagliato; e spesso i rimedi più sponsorizzati rischiano di aumentare il computo dei danni.

In tempi difficili come questi, per stare a galla bisogna aggrapparsi alle piccole cose, agli spiragli di luce: in questo momento il mio salvagente si chiama “Riot Act”. E’ la mia piccola certezza: che i Pearl Jam sono sempre loro, che questo loro ultimo è un gran bel disco.

La mia introduzione non era comunque del tutto pretestuosa: perché “Riot Act” ha a che fare, nel suo piccolo, proprio con le cose grandi del mondo, quelle che non vanno per il verso giusto. Perché il settimo album in studio del quintetto di Seattle è un disco di riflessione, magari con qualche accento di protesta, che dà voce allo scetticismo, alla rabbia, al diritto di pensarla diversamente dalle maggioranze silenziose e dalle opinioni pubbliche. Diversamente soprattutto da chi governa la più potente nazione del mondo, che fa passare logiche miopi e interessate attraverso il dogma del patriottismo.

Già, il patriottismo: Eddie Vedder e soci lo prendono di mira già dal titolo, (“Atto di rivolta”) che è uno sberleffo del “Patriot Act”, proposto da George DoppiaVu a un mese dall’11 settembre, per allargare l’ampiezza di manovra di polizia e servizi segreti in America, e non solo. Ormai lo sanno tutti, nell’album c’è “Bushleaguer” che è un sommesso ma chiaro attacco al presidente USA; ma non si tratta di un disco politico, non in senso stretto. La politica dell’onorevole Vedder e soci sta nell’illusione, o nella speranza, che ci sia ancora posto, nell’orribile complicazione del mondo, per le emozioni più semplici, per la lealtà, l’incazzatura, l’amore. Qualcosa di più preciso? “L’uomo che chiamano il mio nemico/ a sembra piuttosto me in uno specchio” (“Help Help”): non è granchè come concetto, ma di questi tempi non bisogna dare nulla per scontato.

Per tenere fede alla sua ispirazione e al suo titolo, la musica “Riot Act” è diretta, semplice e suggestiva: arriva nella testa molto prima del precedente “Binaural”, è concentrata su una forma canzone che si aggira sui tre minuti, ma non si tratta di un disco punk (nonostante la nuova cresta di Eddie Vedder).

I brani duri, certo, non mancano (“Save You”, “Ghost”, “Get Right”, “Green Disease”), ma il disco è anche percorso da quella vena introspettiva conosciuta nel superbo e sottovalutato “No Code”: è il caso della splendida ballata “Thumbing My Way”, della narcotica “Help Help”, del singolo “I Am Mine” e di “Love Boat Captain”, dedicata ai morti di Roskilde (“due anni fa abbiamo perso nove amici che non conosceremo mai/ e se la vita diventasse troppo lunga aumenterebbe solo il nostro rimorso”).

Che i cinque siano ispirati si capisce anche da un brano atipico come “You Are”, che potrebbe piacere anche ai ragazzini patiti del nu-metal; e a proposito di gusti, qualcuno sarà felice di sapere che Mike McReady, si lancia in certe sbrodolate wha wha che credevo accantonate già ai tempi di “Vitalogy”. Su tutto regna la voce di Eddie, profonda come sempre, più di sempre.

Dopo tutto, i Pearl Jam sono dei conservatori: fedeli a un rock primordiale che conoscono a menadito, che hanno rigirato e scavato infischiandosene delle mode. Dieci anni dopo “Ten”, sono una band serenamente incazzata, che ha ancora la forza di fare un disco rock non solo nei suoni, ma anche e soprattutto nel suo non scendere a compromessi, nella fede utopistica che un urlo o una schitarrarata possano gettare in faccia al mondo le sue storture.
Ci abbiamo creduto in tanti, abbiamo bisogno di crederci ancora.

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