PINK FLOYD, Delicate Sound Of Thunder (2CD, EMI, 1988)

“Delicate Sound…” è la controparte dal vivo di “A Momentary Lapse Of Reason”: Gilmour e soci completano con un trionfale tour mondiale l’opera di restaurazione e aggiornamento del marchio Pink Floyd, portando sia i nuovi brani che alcuni classici davanti a decine di migliaia di spettatori che ai tempi di “The Dark Side Of The Moon” erano sì e no nati. A questo si aggiunge che l’ultima testimonianza dal vivo del gruppo era stata quella suggestiva ma atipica del film “Live At Pompeii” del 1972, precedente ai più grandi successi commerciali del gruppo. C’è quindi più di un motivo per ascoltare con curiosità questo doppio live.

Poco meno di metà dell’album è occupata dai brani di “A Momentary Lapse…”, che vengono eseguiti seguendo pedissequamente gli originali in studio: se ne può fare a meno. Più interessanti i classici della band riproposti, che coprono il lasso di tempo dal 1971 di “Meddle” al ’79 di “The Wall”, saltando a piè pari gli episodi (giudicati forse eccessivamente watersiani) di “Animals” e di “The Final Cut”. E’ evidente lo sforzo di aggiornare, rinfrescare il materiale più datato, anche se, a dire la verità, più che impegnarsi in vere riletture i tre vecchi Floyd sembrano affidarsi all’estro degli otto giovani session men che li accompagnano in tour, come il funambolico bassista Guy Pratt e il rumoroso sassofonista Scott Page. I risultati sono alterni.

“Shine On You Crazy Diamond”, proposta in una sorta di sintesi dell’originale, è convincente nel sua asciuttezza; e dove la band si attiene alle versioni in studio, con minimi aggiustamenti, le cose sembrano andare abbastanza bene, anche se chi conosce gli originali non può certo farsi impressionare. E’ il caso delle superclassiche “Time”, “Us And Them” e “Wish You Were Here”.

Lascia invece molto interdetti la lunghissima versione di “Money”, che viene dilatata in una lunga divagazione strumentale, in cui ogni musicista si ritaglia un assolo, spaziando dal jazz al reggae: mah. Nel brano più vecchio, “One Of These Days”, la verve sperimentale dei primi anni ’70 viene rimpiazzata dalla potenza dell’amplificazione quadrifonica a decine di migliaia di watt, basso ultraeffettato e slide guitar superdistorta: il pezzo rendeva molto di più visto al concerto piuttosto che ascoltato, per via dell’inquietante maiale volante che aleggiava sulle teste degli spettatori. Da “The Wall” vengono eseguiti tre brani: “Another Brick In The Wall” sembra più che altro un dovere da compiere, essendo il singolo più famoso del gruppo; mentre le finali “Comfortably Numb” e “Run Like Hell” sono piuttosto efficaci anche se decontestualizzate dall’album originario, e si prestano al tripudio di effetti speciali e fuochi d’artificio che chiudono il concerto.

In sostanza, era probabilmente meglio essere agli show che ascoltare queste registrazioni: dal vivo la musica si accompagnava alle incredibili luci laser e agli effetti speciali, venendone talvolta soverchiata, ma almeno lo spettacolo appagava quell’infantile “senso della meraviglia” che alberga un po’ in tutti noi. Il disco, invece, è buono soprattutto per far conoscere i Pink Floyd a ignari tredicenni (come accadde al sottoscritto), che di qua partiranno alla ricerca del meglio del grande gruppo inglese, magari arrivando a spingersi alle vertigini psichedeliche del pifferaio Syd Barrett.

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