PINK FLOYD, The Dark Side Of The Moon (EMI, 1973)

Album fra i più decorati della storia del rock (valga come esempio la sua permanenza di 600 settimane nelle classifiche di Billboard, oltre 15 milioni di copie vendute!…), “The Dark Side Of The Moon” proietta i Pink Floyd verso il definitivo status di rockstars, dopo anni di splendidi dischi alternati a prove meno entusiasmanti. La musica “cosmica” di Waters & Co., questo loro suono vagamente spaziale ed ultraterreno, viene improvvisamente adottato dalle masse, innamorate della chitarra di Gilmour, lancinante e pulitissima allo stesso tempo.

Certo, l’opera è trascinata verso la gloria dalla strafamosa “Money” – loro primo number one negli States – che è peraltro il pezzo più staccato ritmicamente dal contesto generale dell’opera. Il disco è un concept album sull’alienazione e la schizofrenia della società contemporanea, con la Morte come sfondo reale ed incombente. Il sound dei Floyd è lo specchio di tale angoscia e smarrimento, risultando spesso plumbeo, con rari scorci eterei che paiono comunque funzionali alla descrizione di un’umanità disumanizzata in mostruose ed inospitali metropoli.

L’alchimia Soggetto-Tema Musicale funziona così perfettamente, ed i tempi sono maturi perché si determini una formidabile breccia commerciale. Come abbiamo detto, “Money” è il rompighiaccio, mentre la flotta che lo segue è semplicemente una delle più straordinarie sequenze musicali della storia del rock. “Breathe”, “Time” (assolo indimenticabile di Gilmour), la soffice ed inafferrabile “Us And Them”, gli enigmi finali di “Brain damage” e “Eclipse” entrano di colpo nelle case di mezzo mondo occidentale, migliaia di camere da letto si tappezzano di strani poster raffiguranti le piramidi (di nuovo l’enigma…), il sofisticato e non facile congegno di Waters & Co. assurge a capolavoro e bestseller. Per una volta almeno, giusto così.

E d’altra parte, come diavolo avrebbe potuto l’umanità non venire a conoscenza di quel pezzo del sottovalutatissimo tastierista d’impronta classica Wright, quei 287 secondi di pura magia, celestiali, un ennesimo viaggio interstellare scandito dai sussurri e dalle grida della eccezionale vocalist Clare Torry, quella specie di moderno canto del cigno intitolato “The Great Gig In The Sky”?

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *