SILVER JEWS, Brigth Flight (Domino/Drag City, 2001)

David Berman è un autore del tutto speciale. Uno che se ne esce con un disco capace di stenderti e che poi sparisce per un paio di anni senza dare notizie. David Berman è un tipo fatto così. Ha frequentato l’università insieme a Stephen Malkmus, ma, in tutta sincerità, non ha niente da invidiare al vecchio compagno di studi. Perché i migliori testi della musica indipendente americana, e non solo, escono dalla sua penna. Canzoni come fossero racconti, storie strappate ad una pagina di Raymond Carver.

Uno che riesce a scrivere cose belle e intense come “Ogni pensiero è come un colpo in faccia” per intenderci. Oppure, citando la celebre “Sunday Morning” dei Velvet Underground, “Sono sul lato sbagliato della domenica mattina”. Capace di rendere tutta l’ironia e l’amarezza del destino usando pochi accordi di chitarra, come dimostra “I Remember”. E uno in grado di scrivere canzoni che vi prendono e non vi lasciano più. Melodiche e indolenti, classiche a modo loro eppure suonate con la pigrizia dei Pavement.

In questo nuovo “Bright Flight”, il quarto lavoro a portare la firma dei Silver Jews, l’aria che si respira è quella di Nashville e della tradizione musicale americana. Anche se poi quello che risalta è il talento di Berman, autore di una scintillante collezione di canzoni, partendo dalla deliziosa “Slow Education” e dal suo luminoso ritornello, passando per piccole gemme come “Room Games and Diamond Rain” e dalla live andatura country di “Tennesee”, o per lo scombiccherato e divertentissimo honky tonk di “Let’s Not and Say We Did”. Toccando l’epicità del Neil Young elettrico, “Time Will Break the World”, e l’aria di dolce sconfitta di cui è fatta “Horseleg Swatikas”, forse la migliore del mazzo.

Fino al commovente abbandono di “Death of an Heir of Sorrows”, la più disarmante ballata ascoltata nell’anno appena trascorso. L’ultima di una raccolta di canzoni memorabile.

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