DIVINE COMEDY, Fin De Siècle (Setanta Records, 1998)

Manca qualche decina di mesi alla fine del Novecento e Neil Hannon ce lo ricorda sin dal titolo, anche se l’espressione usata fa pensare alla decadenza ed alla bohème di un’altra fine secolo, quell’ottocentesco. La solita immagine enigmatica del compositore è scattata a Vienna, città che affascina Neil con le sue architetture riferite proprio al periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il bianco e nero conferisce un’atemporalità ancora più marcata, accentuata dall’ascolto di questo lavoro teatrale, immerso in una cupezza generale da Dopo Diluvio, se si eccettuano due o tre episodi che si staccano almeno ritmicamente dal canovaccio.

L’opening track, “Generation sex”, fa parte di quelle eccezioni. Con il suo incedere tipicamente anni ’60, essa apre l’album in maniera quasi spensierata, se non altro dal lato squisitamente musicale, visto che le parole non seguono affatto la stessa linea ottimistica. Il finale rallentato di “Generation sex” introduce la sofferta “Thrillseeker”, canzone dall’impatto quasi scenico, brusca a dispetto degli archi che provano ad ingentilirla. Nelle sue asperità pare quasi di sentire la mano di Mike Patton dei disciolti Faith No More, e così succede anche nella seguente “Commuter love”, lenta e tristissima, con un finale incombente, spaventoso, da Day After.

E certo il black mood di “Fin de siècle” non è risollevato da un’opprimente ed eccessiva “Sweden” o dall’ipnotica “Eric the gardener” (un omaggio all’inarrivabile Peter Sellers di “Oltre il giardino”?), e neanche dalla lenta marcia marziale verso l’ineluttabile che caratterizza “Life on earth”. Passando quindi fra l’inquietudine di “The certainty of chance” (dove Hannon recita un estratto della “Dolce Vita”, naturalmente tradotto in inglese) ed il catastrofismo di “Here comes the flood” si giunge alla conclusiva “Sunrise”, un vero raggio di sole che lascia aperta la porta alla speranza e che mette nuovamente in risalto le magnifiche doti di vocalist di Neil.

Detto che Joby Talbot firma assieme a Hannon “Eric…” e “The certainty…”, rimane da citare il pezzo forte dell’album, l’ode al Greyhound Bus inglese, il “National Express”. Ascoltarla è come correre a perdifiato dietro le mille note di un musical. Ascoltandola si comprende che forse un giorno il genio di Neil Hannon ci riserverà la grande sorpresa di un Big Musical.

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