BLUR, Blur (Food Records, 1997)

Considerato, al momento della sua uscita, come disco di difficoltosa transizione dalle scintillanti linee melodiche del brit pop ad una vena più introversa e lo-fi, “Blur” dimostra di essere venuto a patti con Sua Maestà Tempo, rivelandosi opera fondamentale nella storia dei quattro di Colchester. Delle prime cinque canzoni che aprono l’album, quattro sono state estratte come singolo: come impatto non c’è male! La opening track “Beetlebum” è anche il brano che anticipa l’uscita di “Blur”. Il suo riff chitarristico in apertura, indolente ed ipnotico, chiarisce da subito che qualcosa è definitivamente cambiato nell’ispirazione dei quattro ragazzi. Registrato per buona parte nella lontana ed ignota Islanda (dove Damon decide di comprare un pub!), “Blur” riflette un po’ le atmosfere fredde e ventose dell’isola. Inoltre comincia a salire d’importanza la personalità poliedrica di Graham Coxon, eccezionale chitarrista appassionato dei Van der Graaf Generator e con buone velleità di pittura. Degli altri singoli di cui si diceva, “Song 2” (un cortissimo e tiratissimo punk) è quello che raggiunge il maggior successo, diventando un vero e proprio tormentone dell’anno. Notevole anche “M.O.R.”, mentre “On your own” delude parecchio, non elevandosi mai oltre l’essere un pacchiano tentativo di inno giovanilistico: uno dei pezzi più deboli di tutto il repertorio. Da segnalare, infine, le meraviglie di “Country sad ballad man” e “You’re so great” (canta il “pittore”…) e l’eterea, spaziale “Strange news from another star”. Alla produzione continua la grande opera di Stephen Street, già deus ex machina dei gloriosi Smiths.

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