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Dopo l’EP SABLE uscito lo scorso anno e incluso in questo disco, del quale è a tutti gli effetti l’incipit, i Bon Iver di Justin Vernon ritornano con un quinto album in studio che è un intrigante e coraggioso salto temporale nel passato e nel futuro del percorso artistico del gruppo: spiragli del suono spoglio e levigato degli esordi soffiano in mezzo a elementi elettronici e soul che richiamano sia al disco di sei anni fa sia ai capolavori precedenti a esso. Senza essere un banale accostamento di questi differenti mondi, SABLE, fABLE, nel suo procedere centrifugo e arioso, è il disco più accessibile e più solare del cantautore statunitense, dove le ombre cupe delle sue ansie e sofferenze non prevalgono mai sugli sprazzi di luce che emergono da tutti i brani.
Avevamo lasciato Justin Vernon – con i, i in un’annata, il 2019, particolarmente esaltante per l’universo musicale mondiale – dipinto entro un affresco sonoro e ritmico mitologico e straniante: sax e percussioni che si spengono lentamente dietro a un tramonto disegnato da un trambusto elettronico, da synth che a volte sono prorompenti e altre volte magistralmente dolci, di frequenze che si sviluppano a tratti in modo pacifico e a tratti in modo teso e graffiante; corde che se toccate nella maniera giusta regalavano perle come la giostra emozionale di “Hey, Ma”, il folk-soul sognante di “Naeem” o la visione mistica di “Sh’diah”, che Vernon aveva iniziato a scrivere qualche anno prima, in un momento per lui particolarmente drammatico, dopo che Donald Trump era stato eletto presidente.
Ora che esce il quinto progetto di medio-lunga durata del suo gruppo, SABLE, fABLE, Trump è di nuovo presidente. Vernon, che durante la campagna elettorale statunitense si era anche esibito a sostegno di Kamala Harris e Tim Waltz, non sembra particolarmente propenso a leccarsi un’altra volta le ferite. Non ignora il mondo che ha intorno: non lo hai mai fatto e mai lo farà. Il suo cantautorato ne è totalmente immerso, poiché in esso il personale e l’universale si intrecciano e si influenzano, e ogni fase che ciascuna di queste sfere sta attraversando incrocia le sue canzoni lasciandovi impronte e indizi. L’EP SABLE, uscito lo scorso ottobre, diventa, quindi, la porta d’ingresso di questo nuovo progetto, e non a caso i brani contenuti in esso entrano a far parte di questo disco divenendone i primi tre pezzi. L’atmosfera rarefatta e un poco malinconica di SABLE serve, in questo caso, a “preparare” chi ascolta al segmento successivo, più lungo, variegato e complesso. Non per questo, però, i primissimi brani sono di valore inferiore: la dolcezza calda e magnetica di “Things Behind Things Behind Things” è la miglior introduzione che il disco potesse avere, un canto leggiadro dove le paure di Vernon persistono ma iniziano pian piano a cadere, cosa che proseguirà gradualmente nel resto disco: «I am afraid of changing / And when it comes a time to check and rearrange shit / There are things behind things behind things», canta con sincerità, ma non con tono sommesso, bensì con piglio grintoso e sicuro.
Cambiamenti che non spaventano ma rincuorano
Il mood che s’incarna nel disco è quello di una speranza che si fa man mano più solida anziché più lieve e più flebile: in “Speyside” e in “Awards Season”, gli altri brani presenti sul disco che erano presenti nell’uscita dell’anno scorso, Vernon continua a costruire un labirinto di segnali e di ritmi che non è claustrofobico ma che nasconde, anzi, una possibile uscita a portata di mano. La «Spaniard» di cui ora canta e che forse ricompare, più o meno sotto mentite spoglie, in “There’s a Rythmn”, è probabilmente uno dei motivi per cui in questo disco, nonostante le crepe e le difficoltà che permangono nell’animo e nella voce di Vernon, la luce prevale sul buio. Che sia amore, amicizia o semplicemente un salto nel vuoto attraverso un viaggio agognato, forse neppure effettuato e soltanto sognato, ogni elemento naturale e antropico sembra filtrato e osservato da un occhio vigile e attento ma non troppo severo. Quando nella onirica e soffusa “Everything Is Peaceful Now” Vernon canta «How am I to know that someday you might change the road?» non è dispiaciuto né sorpreso ma viene in qualche modo avvolto positivamente da ciò che un cambiamento e una separazione possono portare.
La fragilità e la sensibilità dei testi di queste canzoni sono in continuità con gli arrangiamenti melodiosi e avvolgenti di alcuni brani e in contrasto con l’elettricità e la vulcanicità degli arrangiamenti di altri. “Walk Home” ha un piglio scoppiettante e un passo incerto e doloroso nonostante le liriche siano piene d’immagini lucenti e romantiche come «Pull me close up to your face», «You was made for me» e «We can let the light come in / And we can shed your earthly burdens», che creano un intrigante e insolubile nodo con la frase del chorus che ha una movenza distorta e zoppicante. È forse la prima volta che Vernon è così estroverso nell’esprimere questo suo nuovo stato d’animo, che non è quello di una felicità diffusa e totalmente raggiunta, bensì quello di un radioso sentiero che potrebbe condurre a essa, e il viaggio stesso merita di essere intrapreso con la più giusta attitudine. Così suonano gli acquerelli sognanti e parzialmente ottimisti di “I’ll Be There”, dove l’amore diventa la routine più sopportabile e più naturale di tutte, e “If Only I Could Wait”, splendido capolavoro electro-pop che vede il featuring di Danielle Haim, dove Vernon si pone domande enormi, come «Can I live inside this state?» o «Is it folded either way now?», senza che lo affoghi l’ansia di dover rispondervi adesso.
SABLE, fABLE è in effetti costellato di domande, profonde, ovvie, inevitabili, assurde, basate su giochi di parole e su assonanze o consonanze, che creano uno strano effetto di disorientamento in chi le ascolta, elemento ricorrente, questo, nella discografia dei Bon Iver. Anche il capolavoro del disco, che è la quasi conclusiva “There’s a Rhythmn”, è non a caso costruita proprio attraverso un gioco di parole dove i sostantivi «rhythm» e «hymn» finiscono per inseguirsi e confondersi, nella quale l’andamento e l’arrangiamento soul avvolgenti e seducenti servono a creare il panorama adatto al testo, una disamina sincera e schietta del momento che Vernon sta attraversando, a metà tra un’euforia che è razionalmente quasi ingiustificata ma viscerale e passionale e una nostalgia implacabile e paurosa che ora è rinchiusa in un ripostiglio ma che è legata a un passato vicino che continua a seguire, seppure un po’ a distanza, il cantautore. E, sempre non casualmente, anche questo brano è permeato di domande complicate e potenzialmente irrisolvibili, questioni cruciali cui Vernon sa di non poter sfuggire ma che non si sente più obbligato a risolvere in questo preciso momento. «Can I feel another way?», attacca, per poi procedere con spalle larghe e passi rapidi e sicuri. «There’s a rhythmn to reclaim / Get tall and walk away», prosegue, «I went to see you there in Spain / That was a month ago and change», mentre ritornano echi più o meno evidenti dei brani della prima parte del disco, tra luoghi geografici visitati o sognati e un riferimento al cambiamento che, cosa che non ci sorprende, è il grande protagonista eroico di questo album e, a pensarci bene, un po’ di tutto il percorso artistico dei Bon Iver.
80/100