CALCUTTA, “Evergreen” (Bomba Dischi, 2018)

Raccontare un disco di Calcutta oggi è una scienza ardua e il mio esperimento, per quanto oculato e preciso (ne dubito), sarà comunque incasellato in un altro mare di analisi, visioni e pareri.

Prima di ascoltare “Evergreen” mi sono fatto un esame di coscienza, ho preso un buon caffè, ho aspettato la notte (ditemi quale scribacchino degno di questo nome scrive con alla luce del giorno), ho raccolto ogni idea e qualsiasi piccola ispirazione.

Il “Ueee Deficiente” che aveva accompagnato “Pesto” era un chiarissimo preludio all’atmosfera da stadio e sicuramente mi aveva scosso.
Edoardo tuttavia è capace anche oggi, come spesso ha fatto, di sferrare slogan, effetti semantici, soluzioni e conclusioni a effetto che sono diventati un vero simbolo di stile riconoscibile e, per alcuni, indelebili brani da tatuare nel cuore.

La sua apparizione, in senso mariano del termine, al Mi Ami fa capire il livello del fenomeno Calcutta. La sua presenza è ormai sentita, ricercata e in alcuni casi necessaria. Alla kermesse milanese ha chiuso la prima giornata facendo cantare anche chi di solito nemmeno lo ascolta o calcola.

C’è una tendenza a assimilare Calcutta ai fenomeni (alcuni mediocrissimi) indie-pop esplosi negli ultimi anni come Paradiso, Lo Stato Sociale o altri, ma Edoardo è altro e fa storia a sè.

“Mainstream” aveva sfondato la quota-radio con alcuni inni adatti alle frequenze FM, “Evergreen” invece è sapientemente pensato e dà un colpo al cerchio e uno alla botte portandoci in dote “Pesto”, ma anche la sperimentalmente valida “Nuda Nudissima”.
I pezzi sono come la scultura “Love”, di Robert Indiana a Philadelphia, ovvero assolutamente distinguibili e con una cifra stilistica ormai definita.
Il brano su “Hubner” è l’esempio più efficace di ciò che significa “Evergreen”: una perfetta sintesi tra il passato, il futuro, tra il tornare e il reinventare.
Un ritorno alle origini, un bisogno assoluto di spogliarsi dalle scorie di Mainstream, anche il ripescaggio di “Saliva” e “Briciole” lo testimonia.
Calcutta sembra avere il necessario bisogno di ritrovare una dimensione intima, molto semplice e poco urlata, anche se è paradossale non gridare dentro uno stadio o all’Arena di Verona.

I pezzi sono come delle foto di Vivian Maier, disegnano continuamente istantanee piene di storie, un po’ troppo amore, situazioni assurde e anche i meme seriali, già onnipresenti dall’uscita di “Orgasmo”, fanno ormai parte dell’enorme immaginario del cantautore di Latina.

Di “Evergreen” fa parte anche l’idea dell’alienazione della folla che si stringe intorno a lui, proprio come le pecore sulla copertina dell’album.

Il disco è una critica elegante, molto più pungente di come si possa pensare.
Il mondo di Calcutta sembra una fantasia bucolica, a cavallo tra la confusione esistenziale e l’impellente bisogno di raccontare degli scorci di realtà.
Le sue sono canzoni en plain air: l’immagine del campo di kiwi, il “mondo cane” che si deve fare gli affari suoi e gli orgasmi più profondi del mondo, sono attimi quotidiani, ma per tornare alla figura della Maier e alla sua spersonalizzazione dovuta al mercato frenetico dell’arte, c’è l’assoluto bisogno anche qui di andare oltre il marketing e le classifiche Spotify per cercare di spiegare Calcutta.

La sua figura è pop e negli stadi, tra qualche anno, potrebbe risuonare una musica leggermente più ricercata e personale del classico polpettone ignobile.

Calcutta non è musica d’avanguardia o musica colta e nemmeno il “free jazz punk inglese”, eppure vale la pena tornare a parlare di lui come il sempreverde cantore che si buttava sulle piazzette d’Italia e di Roma e ci raccontava la sua, fregandosene di ogni contesto.

Calcutta è l’unica vera controrisposta del pop al germogliare infinito della trap.

Edoardo è come una piazza di provincia, piena di polarizzazioni tra vecchi che scatarrano e giovani che sparano Young Signorino da una cassa, tocca a noi decidere da che parte stare.

Non sarà il disco della vita ed è ancora presto per fare paragoni, ma sicuramente “Evergreen” si interseca perfettamente in uno storytelling assolutamente personale, che continua a stimolarmi. In fondo a chi non piace ogni tanto immergersi in un immaginario così, sempre in bilico tra lo sfottò e l’impressionismo musicale?

74/100

(Gianluigi Marsibilio)