Kula Shaker, Alcatraz, Milano, 25 febbraio 2016

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25 Febbraio: si parte da Bologna direzione Milano. La macchina, la solita; l’equipaggio consolidato. Tra confidenze e music crossing, rituali nell’atmosfera che accompagna l’avvicinamento a qualunque venue, si arriva agilmente in via Valtellina e altrettanto comodamente si trova parcheggio, segno che sarà una serata tra cultori del sound di Mills & Co.

Appena entrati non si può non rimanere rapiti e raccolti dai visual proiettati alle spalle della band, multipli caleidoscopi costituiti da disegni e arabeschi di ogni colore conditi con immagini di personaggi famosi di ieri e di oggi, da Marylin a Kakà.
Il concerto inizia con 15’ di ritardo sulle 21.30 previste. L’apertura è consacrata al riff potente e raffinato di “Sound of Drums”, e dopo pochi brani il primo boato per “Into the Deep” cantata in preda alla gioia più spontanea e tardo adolescenziale dalle prime file. Da qui s’imprime una netta accelerazione alla setlist che si allunga su “303”, “Shower your Love”, “Grateful When You’re Dead/Jerry Was There”, “Temple of Everlasting Light” e la nuova e mantrica “Infinite Sun”, per poi entrare in una fase mistica su “Tattv”a e concludere la prima parte del concerto con la cover di “Hush”, da sempre l’equivalente di una sauna.
Il reprise è come la raffica finale che chiude le esibizioni dei migliori maestri di fuochi d’artificio: inizia con la ballad “33 Crows” contenuta nel nuovo album “K2.0”, per poi scaricare sul pubblico tutta la potenza di “Hey Dude”, “Great Hosannah” e “Govinda”. Proprio “Govinda”, cantata da quasi tutti i presenti sotto la guida di un estasiato Crispian Mills sembra trasformare l’Alcatraz nell’European Vaishnava Festival.

La forma strepitosa della band londinese nasconde i punti deboli della serata tra cui qualche problema sul palco in particolare con il funzionamento dei microfonici panoramici per l’amplificazione della batteria, la perdita di molti suoni contenuti nella versione studio dei brani che inevitabilmente non possono essere tutti riprodotti dal comunque ottimo Harry Broadbent alle tastiere, il pubblico milanese che si dimostra troppo poco incline alla mescolanza (come da copione) e la chiusura nell’arco di mezz’ora del locale, con la cacciata di chi avrebbe volentieri metabolizzato sotto il palco birra in mano quanto aveva appena visto.

E allora tutti in macchina, autostrada di notte e il cuore sfamato, dalle note, dai sorrisi e dalla pace.
Namasté.

(Francesco Fauci)