FUJIYA & MIYAGI, “Artificial Sweeteners” (Yep Roc, 2014)

cover1Fujiya & Miyagi alla loro quinta fatica. Dal krautrock al synth-pop, passando per la techno e pure per la disco anni ’70; e da Brighton, loro città natale, al Giappone (ma solo per la scelta del nome della band, all’epoca composta solo dal duo Lewis/Best), dalla Germania, alla Francia, a Detroit: l’identità artistica di F&M viaggia nel tempo e nello spazio e raccoglie suggestioni dovunque le capiti.

Insomma, gente a cui piace sporcarsi le mani e che hà l’aria di divertirsi parecchio, esplorando le varie declinazioni dell’elettronica.
E in quattordici anni hanno fatto capire a tutti che questa esplorazione disinvolta, questo giochiamo a comporre, a loro interessa molto di più che non arrivare ad un punto d’arrivo determinato – qualcosa di vicino ad un dunque la si era trovata in “Transparent Things” (2006, Tirk Records). “Artificial Sweeteners” è perfettamente in linea con la loro carriera. Non vuole stupire, vuole divertire e scuotere corpi, e ci riesce discretamente, sin dalla traccia d’apertura “Flaws”: a distanza di quarant’anni, riecco “Autobahn” dei Kraftwerk vestita di nuove tecnologie.

Da qui in poi è una lunga galleria di più o meno vecchie conoscenze. Lewis, Best e compagnia attingono da ogni dove, senza imbarazzo: pare di vederli tutti, Can, Florian Schneider e Wolfgang Flür (con le loro creature), Patrick Hernandez, Indeep, Juan Atkins, Mirwais, Aphex Twin, Yuksek e la lista potrebbe andare oltre. Il quartetto di Brighton aggiunge a tutto questo un bel po’ di zucchero (o meglio, di dolcificante artificiale), ed ecco che la pillola va giù che è un piacere, ci si ritrova costantemente sopra i 120 bpm, circondati dal ritmo geometrico e la melodia intermittente: eh sì, perché i quattro pestano parecchio sulle drum machine, ma ce ne si accorge a malapena, tanto sono discreti nel farlo, con i riff funky à la Daft Punk e la voce di Best a fare da contrappeso. I momenti migliori dopo l’apertura sono tutti nella seconda metà dell’album: “Tetrahydrofolic Acid”, una chiesa techno introdotta dall’organo solenne di Lewis; la successiva “Daggers”, compendio dell’album (forse un po’ troppo simile a “Ankle Injuries” sul finale), il cui riff fa il verso nientemeno che a “Hotel California”; la suggestiva “A Sea Ringed With Visions”, aperta da Keith Emerson e chiusa dai Chemical Brothers, a concludere questo piccolo breviario dell’elettronica, ben confezionato e d’intrattenimento.

65/100

(Pietro Di Maggio)

16 giugno 2014