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In una major ma sempre underground
Il battesimo di Alex Giannascoli in una major, l’RCA, è tutto quello che potevamo e dovevamo aspettarci: fedele al mondo indie e underground di cui si è sempre nutrito, il cantautore aggiorna appena il suo sound, ampliando e approfondendo alcune delle sue specificità, dando al suo songwriting tratti ancora più maturi e profondi del solito.
Alex Giannascoli, lo sappiamo, ama confonderci: da sempre dissemina episodi puliti e freschi, come qui avviene nel brano d’apertura “June Guitar”, nel singolo adult rock orecchiabile “Afterlife” e nella title track, di quelle piccole dissonanze melodiche, di qualche manipolazione vocale o di alcuni versi svianti e poetici che funzionano come leggeri inciampi in una staffetta trionfale. È proprio in questi momenti che il mistero che è il cantautorato di Alex G diventa qualcosa di organico.
Se in questo nuovo capitolo della sua vita artistica non troviamo diretti riferimenti all’esperienza genitoriale – Giannascoli ha un figlio di due anni – vi fanno però breccia le preoccupazioni e le speranze che essa comporta. Sempre all’interno di questa visione percorriamo con lui temi già cari alla sua poetica calati, più di quanto avveniva in passato, nel suo vissuto e nella sua persona. Ci sono viaggi in highways deserte, ci sono riflessioni filosofiche sul conflitto tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale, c’è l’eterno conflitto tra la giovinezza e l’età adulta con gli imbarazzi e con il disorientamento che questo comporta, c’è il difficile rapporto con il denaro, forse divenuto un argomento ancor più affascinante ora che Giannascoli è all’interno di un’etichetta discografica di grandi dimensioni.
Spontaneo e disorientante
Tutto questo affiora in maniera spontanea e un poco intricata in Headlights, un disco maturo e potente. Nel criptico testo di “Real Thing” Giannascoli conclude che «I never thought I was the real thing / There were certain tests I thought that I would pass» poco dopo essersi domandato tra l’ironico e il beffardo «Hoping I can make it through to April / On whatever’s left of all this label cash». In “Headlights” ripete che «My heart’s insane / Let the money pave my way» non senza aver prima riconosciuto senza troppo dispiacere che «My heart grew cold / And my story went untold». Spesso è qualcosa che infine non si riesce a trattenere che tormenta Giannascoli, che nella stupenda “Far and Wide” conclude sornione con il dubbio di «All the world was left / In faded color / Didn’t we give everything / To be with one another».
Tra le crepe del pavimento da cui i problemi si elevano c’è però spazio anche per tanto verde. La felicità, difficile da preservare, è affidata a ricordi sfocati e totalizzanti, come quelli di una Florida onirica e cinematografica che levigano “Oranges”, o a luoghi indefiniti dove coltivare una speranza in più, come quando nella già citata “Far and Wide” Giannascoli dice che «I’ve searched far and wide / For a place like this». In “Spinning” questo anelito esplode nel divertito distico «Just like something in a song / It’s not over, it’s not wrong». La Louisiana e una figura femminile immaginata e immaginaria finiscono per coincidere nella shoegazey “Louisiana”, mentre nella esplosiva “Afterlife” il dolce e l’amaro e il passato e il presente si sopportano e si combattono con grazia mentre Giannascoli canta «We were clean like Kerosene / Candy and porno magazines».
Una sfumatura piuttosto teatrale colora la vivace e intrigante “Logan Hotel”, che chiude l’album con un accento allegro e speranzoso: «Once you get the feeling you got two lives / Well, now you gotta pick a side», canta Giannascoli, anche in questo caso interpretando il testo visionario e multiforme con un tono spensierato e divertito. Per la sua inclusione nel disco Giannascoli sceglie una versione del brano eseguita dal vivo di recente, decisione che ripaga per la potenza e per la schiettezza con cui il cantautore la interpreta. Un rock acido e pulsante si sprigiona dalle pieghe del pezzo mentre la chitarra e l’apparato ritmico danno ancor più risalto alla performance vocale che, quando non è resa irriconoscibile dalla tecnologia o dalle maschere che di volta in volta decide di apporle, ha quella dolce ed emozionata eco à la Elliott Smith. Il soffuso pop jazzistico di “Is It Still You in There?” che lo precede si inserisce anch’esso in quel filone tra il surreale e il visionario che caratterizza molti dei brani della produzione di Giannascoli, aspetto che in questo disco, come nei due precedenti, affiora con particolare brillantezza.
I’m all in pieces…
Non sarebbe sbagliato affermare che molte di queste sfumature rappresentino una spada brit nel sottobosco statunitense di Alex Giannascoli, dai cori sofisticati della romantica “Beam Me Up” al numero quasi brechtiano di “Far and Wide”, dove Giannascoli ci ribadisce che è «all in pieces», capitoli che rimescolano le carte nel mazzo aggiungendo un ulteriore layer di significato e di sensibilità musicale in un panorama che è comunque totalmente ancorato, nei suoni e nelle visioni liriche, al mondo statunitense.
“Far and Wide”, un folk leggero e al tempo stesso dotato di una dinamicità avvolgente, è uno dei momenti più originali e vividi del disco. Lo straniamento che Giannascoli cala nel brano, sia per il modo in cui lo interpreta sia per la delivery che sceglie di adottare, quasi cabarettistica, che costruisce utilizzando uno spiazzante – e quasi repellente – timbro vocale, sembra aiutarlo a scacciare la condizione che il testo, nel suo andamento continuamente in bilico tra il serio e l’ironico, descrive.
Se Giannascoli afferma, scherzandoci su, nella lucente e appassionata “Beam Me Up”, che «Some things I do for love / Some things I do for money», cosa che di per sé non sarebbe affatto strana, ci rendiamo presto conto che in realtà il pezzo non parla del suo passaggio a una major. Come al solito, i testi di Giannascoli sono velati da una patina di oscurità che è ciò che li rende particolarmente affascinanti. Questo, tuttavia, è senza dubbio il disco in cui il cantautore si svela di più ai nostri occhi: al centro del quadro non c’è più soltanto la sua idea di musica – evidente mentre condivide con noi la sua arte – ma anche la sua persona che finalmente emerge da un complesso labirinto di orme e di segni.
Tra rock californiano e immacolato folk-pop
La voce processata che talvolta compare rappresenta una delle tante orme che proviamo a seguire, curiosi di sapere dove ci porterà. In “Bounce Boy” e in “Is It Still You in There?” essa rende il panorama sonoro e testuale un gomitolo di rimandi, di accenni e di sillabe che come in un quadro cubista sembra rendersi comprensibile di fronte ai nostri occhi solo se accettiamo di fare qualche passo indietro e lo osserviamo facendo particolare attenzione ai suoi contorni e al suo precario equilibrio geometrico. Pensiamo, per esempio, all’impalacatura di rock torrido su cui cresce “Logan Hotel”, che ha proprio nel già citato timbro smithiano e nelle ginnastiche vocali e melodiche del chorus un qualcosa XO e Figure 8, dove in diversi episodi un rock poetico dalle onde californiane incrocia sonorità pop dalle venature britanniche.
Sono diversi gli episodi onirici che ti catapultano in una dimensione parallela a quella reale che però condivide con quest’ultima le preoccupazioni, i problemi e le speranze che ci teniamo dentro. La bellissima “Louisiana” stende un tappeto sonoro vorticoso e ipnotico sopra la voce processata di Giannascoli fino a sommergerla in un fiume di magma che scorre rapidissimo. Alcuni brani, come “June Guitar”, il pezzo d’apertura, la successiva “Real Thing” e la vellutata, neilyounghiana “Oranges”, si muovono in un solco country-folk maggiormente tradizionale, ma grazie alla sensibilità e all’originalità compositive di Giannascoli prendono pieghe inaspettate e ammalianti. Dall’altra riva del fiume, diciamo così, bilanciano queste apparenti “normalità” le sfumature ipnotiche di “Afterlife”, le allucinazioni di “Bounce Boy”, i cupi fraseggi ritmici e chitarristici di “Headlights”, dove Giannascoli, con piglio convinto e sempre un poco sardonico, canta che «Once I rode a black horse / Headlights in my eyes / Dragging down a yellow moon / Just to bring it back to life».
Quasi tutte le soluzioni melodiche magistralmente tessute dal cantautore rimangono in testa da subito. In questo senso i passi più rappresentativi di Headlights sono proprio il primo singolo “Afterlife”, che diventa secondo dopo secondo più martellante grazie a una melodia appiccicosa e a un testo come al solito particolarmente incisivo e disorientante, un pezzo che crea intriganti trame sotterranee fino a farsi tagliente e ruvido come carta vetrata, e la canzone che dà il titolo al disco, “Headlights”, un folk seducente e magnetico che si intreccia a un arrangiamento strepitoso, a una melodia come al solito puntellata di virate improvvise e inaspettate e a una solida e gradevole performance vocale di Giannascoli. Se Headlights non è per forza il miglior album della sua carriera, scettro che forse potrebbero mantenere i due capitoli che lo precedono, ci siamo molto vicini.
80/100