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Lunedì 23 giugno è partito ufficialmente l’InMusic Festival 2025, il più grande evento musicale open air della Croazia, nella suggestiva isola del lago Jarùn, nel cuore di Zagabria.
L’InMusic prevede due palchi principali, Main Stage e World Stage, un palco nascosto più piccolo (Hidden Stage) e alcune aree con DJ set locali – tra cui una molto caratteristica tra gli alberi. Il tutto si snoda intorno alla Tesla Tower, che spara musica rock anni ’70 per tutta la serata. Il mix di band e pubblico è imprevedibile e lo si percepisce già dalle affollate navette che portano le persone all’interno dell’isola (che è car-free).
Gli inglesi Yard Act, promesse del nuovo rock post-punk britannico, sono stati ufficialmente il mio battesimo con il festival croato. Rispetto al tour precedente è tutto più essenziale, niente outfit arancioni dell’ultimo album, niente ruote della fortuna o giochini on stage, tutto molto asciutto e asettico, solo una spilla Free Palestine e un nuovo baffo per James Smith. La band ha un sound fresco, idoneo per entrare nel campionato delle band di alto livello di questo genere anche se è orfano di hit iconiche – ed è forse questo il loro grande limite. Lo sprechgesang di James Smith rende il tutto più caratteristico ed incalzante, grazie anche a un’alternanza continua di microfoni ed effetti. Ogni canzone ha il giusto mix e, quando rischia di essere ripetitiva, l’inserimento finale dell’armonica e del sax sugli outro ed intro di vari brani aiuta a uscire dall’impasse sonora.
A fare da headliner sempre sul palco principale ci sono i Fontaines D.C. e AIR. Al contrario del live di Milano, qui i suoni e lo spazio rendono giustizia a Grian Chatten e soci.
La band è ormai centrata in tutti i suoi movimenti. Nessuna interazione con il pubblico, solo qualche Free Palestine – accompagnato anche da visual imponenti contro Israele – ma il resto è tutto profondamente focalizzato sull’esecuzione dei brani, nuda e cruda. Grian Chatten è ormai un veterano (anche se ha meno di trent’anni), il gruppo ha molto più controllo e mentre prima – soprattutto nei brani di Skinty Fia – si lasciavano andare velocizzando i brani o aumentando le distorsioni, ora sembra fluttuare in un range più gestibile, con un canto controllato distintivo.
Non mi addentro nella diatriba sull’ultimo album ma i pezzi nuovi vengono apprezzati e cantati da tutti, al pari delle vecchie hit.
In alcuni brani, It’s Amazing to Be Young o Favourite – con annessa proposta di matrimonio tra la folla – Grian Chatten prende la chitarra acustica e “ammorbidisce” il set, ampliando la matrice punk con picchi più pop-rock.
Tra i brani di Romance, In the Modern World e la conclusiva Starbuster hanno una resa migliore live, grazie a suoni più elettronici e synth che permettono di apprezzare ancor di più la produzione dei brani.
Prima erano più sporchi, più grezzi; ora tutto sembra essere impacchettato perfettamente per fare l’upgrade mainstream. Ovviamente li preferivo prima, ma questo è il classico commento prevedibile e noioso perché musicalmente restano solidi.
Gli Yard Act hanno dato il via alla giornata della “spoken word music”, che ha trovato il suo apice sul World Stage alle 22:15 con Mike Skinner, The Streets. Ero incuriosito dal loro live e dalla trasposizione di una carriera musicale che passa dalla “poesia urbana” alla jungle, dal dub al pogo, dall’hip hop al pop. Mike Skinner è un performer e vuole rendere memorabile ogni suo live. Si lancia tra il pubblico, parla, spiega i brani e crea un’energia ed una sinergia continua di brano in brano. Menzione d’onore per il connubio finale Blinded by the Lights e Take Me As I Am, due hit che suggellano il range sonoro tra elettronica deep riflessiva e dub-jungle, accolta da salti e moshpit.
Gli AIR invece concludono la serata con il solito live “ipnotico”, aggettivo che sembra un doveroso obbligo in ogni loro recensione. L’impatto iniziale è forte – soprattutto dopo i Fontaines e l’energia dei The Streets -la resa è destabilizzante. I visual sono da applausi, tutto suona perfetto, loro sono stilisticamente ed esteticamente impeccabili. Forse il contesto aperto non è il massimo per la loro proposta, magari un teatro renderebbe più giustizia, ma la parte finale del set, con synth e vocoder, è preziosa e rende omaggio alla storia della band. Manca forse una maggiore componente vocale femminile, che avrebbe dato ancora più sfumature al live.
Martedì 24 giugno, il secondo giorno del festival è ancora più caldo e affollato del primo ed ha una piega più pop-rock.
Michael Kiwanuka occupa la fascia oraria dedicata al tramonto e l’esecuzione è cromantica, romantica e colorata dal sole. Sul palco tanti elementi, strumenti e musicisti che tessono ogni suono. Tre coriste si prendono la scena e aggiungono un’atmosfera gospel, con Emily Holligan esaltante su Rule The World.
Michael Kiwanuka spazia tra blues, soul e folk-rock, ogni brano prende una nuova chitarra che interpreta meglio le sue ispirazioni musicali, dalla diavoletto Gibson di Angus Young a quella acustica. Tra i momenti migliori Home Again, solo chitarra e voce, che riesce nell’impresa di zittire il pubblico ed è un paradosso come una sola chitarra possa sprigionare quel silenzio tra la folla.
A seguire Kim Deal nel World Stage. L’ex Pixies e The Breeders si presenta con dieci elementi, tra cui tromba, trombone, violoncello, violino ed una scaletta che prevede quasi tutto il suo nuovo album. Lei tiene spesso la chitarra in mano ma, alla fine, tra tutti gli strumenti è sempre il basso distorto, il suo marchio di fabbrica, che fa emozionare e vibrare il pubblico.
L’iconica Cannonball, riconoscibile appunto dal suo intro di basso, e Gigantic, unico brano dei Pixies scritto e cantato da Kim Deal, sono i due momenti migliori.
Finale con i Kasabian che prendono il posto dei Kings Of Leon, gruppo che ha abdicato il trono di headliner del secondo giorno. Dopo l’abbandono del frontman resta a Pizzorno l’arduo compito di tenere le redini della band. La scaletta aiuta perché alcuni brani sono proprio concepiti per un contesto da festival: L.S.F., Days Are Forgotten, Fire e Pizzorno sa come scaldare il pubblico. Tanti anche gli snippet particolari: Music Sounds Better With You introduce You’re in Love With a Psycho, Insomnia apre Treat (brano tra i più sottovalutati) e il tutto culmina con I Want It That Way dei Backstreet Boys, eseguita chitarra e voce.
I Kasabian sono la comfort choice, sono popolari, sono accollativi, più incentrati sullo show che sul resto, ma giusto così. Si canta, si balla e se deve esserci un sostituto tra il pop-rock, loro non scontentano nessuno ed incarnano la soluzione ideale.
L’escalation del caldo continua e culmina nel terzo giorno sull’isola di Jarun,costringendo la mia felpa a rimanere in valigia per tutto il tempo. Terzo giorno che, rispetto a un primo più rock e a un secondo più pop, propone delle scelte più ricercate/raffinate. Sul palco centrale St. Vincent e Massive Attack, sul World Stage invece i Foster The People.
Avevo decisamente sottovalutato l’attitudine di Annie Clark, St. Vincent, sul palco. Certo, dai video si evince la naturalezza e la cura dei dettagli, ma dal vivo è capace di trasmettere molto di più.
Broken Man, best rock song ai Grammy, è il brano che fa da spartiacque verso un set più aggressivo/rock. Esce fuori la natura selvaggia, sanguinaria di St. Vincent, che inizia a camminare, gridare, correre, sputare (Nick Cave reference), ballare, suonare, baciare i chitarristi ed eseguire tutte le tipologie di verbi che implicano un’attività da performer sul palco.
C’è un contrasto perfetto tra rock sporco, distorto, e la sua espressione dolce con balletti tra l’ironico e il sensuale. C’è il bianco e il nero, proposto anche negli outfit della band.
La faccia più pop si intravede in New York, brano decisamente più accessibile, dove St. Vincent si erge tra la folla e tra palloncini volanti accarezza i fan, mentre in Sugarboy duella con il chitarrista Jason Fulker, per poi lasciargli lo spazio finale di un assolo.
Mancano pezzi memorabili, mancano hit e se prima questo mi preoccupava, alla fine del concerto ho capito perché nella lunga carriera di St. Vincent non è mai stato un problema.
Sul palco adiacente invece salgono i Foster The People che, a proposito di pezzi memorabili, hanno Pumped Up Kicks, hit che ha trainato il loro repertorio da anni. Non li conoscevo nel dettaglio, ma la proposta sonora ha un mood estivo significativo con doppia voce con effetti, suoni che riportano gli MGMT, visual colorati e gran dosi di glucosio musicale, necessaria soprattutto per resistere nello show successivo.
Mancavano da 7 anni in Europa e l’ultimo album ha qualcosa di molto interessante con il vocoder e passaggi funky.
Quando cala la notte è tutto pronto per i Massive Attack. Del loro concerto si è letto tantissimo ed è diventato un caso prima ancora di salire. Nei giorni scorsi avevano criticato i festival, gli sponsor dei festival, chi suona e non si espone ed il loro concerto sarà un atto di coraggio, un’opera cinematografica.
Dal primo momento del concerto partono visual contro Israele, Musk, Trump, Netanyahu (l’unico veramente fischiato), Putin, società capitalistiche, AI, smartphone e tutte le problematiche della società attuale.
Il visual è imponente e la sensazione di ascoltare musica live con video di città distrutte e bambini in lacrime è debilitante. A momenti ci si dimentica anche di essere a un concerto perché, oltretutto, la precisione sonora e la perfezione musicale dei Massive Attack è imbarazzante. Il senso di straniamento è dato anche dai numerosi musicisti sul palco e dalla costruzione data dall’alternanza solita alla voce, doppia batteria e l’elettronica raffinata con una sua matrice immersiva, catartica.
La capacità di inglobare e di comunicare qualcosa senza snaturare la parte musicale è forse il bilanciamento più complicato da raggiungere. In un’epoca di concerti overpriced, visti da tutte le generazioni, è sicuramente uno step importante e basilare in termini di performance. Riuscire a comunicare ed esporsi con questa forza rischia di distogliere l’obiettivo ma questo non sarà mai il caso dei Massive Attack che, nella seconda parte, prediligono le solite hit,infilando anche Avicii e Gigi D’Agostino.
In my Mind di Gigi D’Agostino, seguito da Teardrop, chiude la diciassettesima edizione dell’InMusic Festival.
L’ InMusic si conferma un festival piacevole con proposte mirate ma capace di attirare gente da diversi Paesi, soprattutto limitrofi. È ben gestito, facilmente raggiungibile, non ci sono code e propone musica dalle 17 alle 04 di notte. Sarebbe bello riportare qualcosa di simile anche in Italia. Se cercate un festival con atmosfere più tranquille, sonoro ottimo, palchi raggiungibili e orari rilassati, può essere la soluzione perfetta. Ogni artista l’ho visto e sentito benissimo senza dover fare file o attese particolari.
Tra le note positive, la birra costa 5 €, non ci sono i token, il thai era ottimo e la pizza degna di Napoli. Tra gli aspetti negativi, i dj set notturni avevano brani da playlist di villaggi turistici e nessun dj degno di nota. L’atmosfera però rimaneva serena e piena di gente per tutta la notte, quindi va bene così.
In ogni caso, salvo cambiamenti sul cambiamento climatico, non portatevi la felpa come ho fatto io e godetevi il fresco che vi accompagna a casa ogni sera dopo i concerti.